Terzogenito di Alberto I, dominus di Verona, e di Verde da Salizzole, Canfrancesco, detto sin dall’infanzia “Canis magnus”, nacque il 9 marzo del 1291. Circa la sua infanzia e adolescenza, si hanno scarse informazioni documentarie e cronistiche: nel poema dello storico vicentino Ferretto dei Ferretti si descrive Canfrancesco come un giovane prodigioso che, non divertendosi a giocare con gli amici, preferiva utilizzare le armi e sognare imprese cavalleresche.
Si sono fatte varie ipotesi sul suo nome: la leggenda vuole che prima di darlo alla luce nel 1291, la madre, Verde da Salizzole, sognò un cane che coi suoi latrati riempiva la Terra. La cosa venne interpretata dagli astrologi di corte come un segno di buon auspicio per il futuro del nascituro e si aggiunse così la parola cane al nome Francesco: Canfrancesco.
Potrebbe anche essere stato battezzato Canfrancesco in omaggio allo zio Mastino, il fondatore della dinastia. Il tema canino venne tra l’altro abbracciato con grande entusiasmo e, da Cangrande in poi, venne utilizzato dai Signori di Verona nei nomi, negli elmetti, nei monumenti e nei sepolcri.
Un’altra ipotesi lega il nome alla moda in auge in Italia di dare nomi legati alla nomea dei signori mongoli ilkhanidi di Persia, talché Cangrande significherebbe nient’altro che Gran “Khan”, termine che presso le popolazioni orientali stava a indicare il capo, il leader. Nel ‘200 erano frequenti i viaggi di mercanti, veneziani in particolare, nelle terre dominate dai tartari di Gengis Khan che non molti decenni prima della nascita di Cangrande era giunto coi suoi tremendi eserciti alle porte dell’Europa. Marco Polo fu ospite di un altro Khan, Kublai, del cui regno, il Katai, narrò lo sfarzo e le ricchezze nel suo Il Milione, lettura diffusa e apprezzata nelle corti del Trecento.
Ma sembra anche che Cangrande amasse ricondurre l’origine della famiglia ad uno dei capi militari “magici e invincibili”, dalla testa di cane, “alleati dei longobardi”, da individuare in qualche capo militare àvaro (turco) che, avente appunto il titolo di Khan, partecipò alla conquista longobarda (partita dall’attuale Ungheria) dell’Italia.
Alberto I della Scala già con il secondogenito aveva voluto usare il nome di un grande guerriero del passato, per altro assai legato alla storia di Verona: Alboino. Appare quindi più che plausibile che anche con l’ultimo dei suoi figli Alberto decidesse di usare un nome di grande impatto evocativo per un cavaliere medievale.
Alberto I della Scala curò personalmente l’educazione militare (e non) del figlio, che infatti provava per il padre un grande affetto, e da lui ereditò le doti di condottiero e cavaliere: proprio da questi venne insignito del titolo di cavaliere mentre era ancora bambino, insieme al fratello Bartolomeo e ai parenti Nicolò, Federico e Pietro, durante la festa di San Martino nel novembre del 1294, festeggiando in questo modo la vittoria contro Azzo VIII d’Este e Francesco d’Este. Nella stessa occasione fu progettato un suo matrimonio con una figlia di Bardellone Bonacolsi; nel 1298 è menzionato, al pari di altri membri della famiglia Della Scala, nel testamento di Bonincontro vescovo di Verona. Tre anni più tardi Canfrancesco fu invece assente, a differenza dei fratelli maggiori, al testamento del padre, nel quale viene affidato alla tutela del primogenito e dominus Bartolomeo.
Il padre morì nel 1301, quando Canfrancesco era poco più di un bambino, per cui venne affidato alla custodia del fratello Bartolomeo, che divenne il nuovo Signore di Verona. Fu sotto il suo principato che per la prima volta Dante Alighieri venne ospitato nella città scaligera, dopo che fu esiliato da Firenze. Bartolomeo, dopo aver consolidato il potere della famiglia, morì prematuramente il 7 marzo 1304: gli succedette il fratello Alboino, più incline alla mediazione e alla pace che alla guerra. Cangrande, spesso al suo fianco, mostrava, diversamente dal fratello, un temperamento cavalleresco e ambizioso e proprio per questo motivo ottenne di poter condividere il peso del potere, anche se in rapporto di subordinazione rispetto al fratello, vista la sua giovane età (era appena quattordicenne).
Nell’aprile del 1305 Azzo VIII d’Este, Signore di Ferrara, Modena e Reggio nell’Emilia, si sposò con la figlia di Carlo II di Napoli divenendo così un importante esponente della fazione guelfa dell’alta Italia, contrastato però da una lega formatasi il 21 maggio e composta dalle signorie di Verona, Brescia e Mantova. L’8 novembre si aggiunse alla lega Parma, mentre Modena e Reggio Emilia si aggiunsero l’11 febbraio 1306: non solo, anche Francesco d’Este, che dopo il matrimonio del fratello Azzo VIII non poteva più ereditare il potere, si aggiunse all’alleanza. Nel luglio dello stesso anno Alboino conquistò Reggiolo e invase il territorio ferrarese, Azzo fu così costretto ad abbandonare Ferrara dove, però, i suoi seguaci riuscirono a fermare gli assalti nemici.
Visto che non si riuscirono ad ottenere risultati di rilievo l’esercito mantovano-veronese si ritirò dai territori ferraresi per andare in aiuto di Matteo I Visconti che stava cercando di riappropriarsi del potere a Milano dopo essere stato cacciato dai guelfi Torriani. In agosto l’esercito venne affidato a Cangrande che lo portò non lontano da Bergamo, dove il Visconti, radunati 800 cavalieri e 1.500 fanti, si unì alle truppe alleate. Guido della Torre preparò un forte esercito e riuscì a mettere in fuga Matteo Visconti, a quel punto Cangrande non vedeva motivi per continuare l’azione di forza e decise di ritirarsi.
Il 14 marzo Verona (alla cui lega si era nel frattempo unita anche Ravenna) riprese la guerra contro Azzo, mentre il mese successivo venne siglata la pace con Milano. A Ferrara si unì Cremona, che dopo la sua entrata in guerra vide il proprio territorio saccheggiato dai cavalieri veronesi. Dopo gli attacchi al territorio cremonese i cavalieri rincasarono a Ostiglia, dove furono raggiunti da Azzo insieme alle truppe ausiliarie di Napoli e Bologna. Cangrande e Alboino raggrupparono un esercito di 10.000 fanti e 1.400 cavalieri per difendere la città, ma nonostante questo Ostiglia venne conquistata e la flotta mantovano-veronese sul fiume Po catturata. Azzo però morì e lasciò il potere al nipote Folco, ma, ritenendo ingiusto questo passaggio, Francesco d’Este chiese a Papa Clemente V di fare da arbitro per la contesa.
Verona e Mantova non avevano quindi più motivi per continuare la guerra vista la nascita di lotte intestine a Ferrara, che aveva così perso il ruolo di importante centro guelfo dell’alta Italia: Scaligeri e Bonacolsi chiesero e ottennero il mantenimento dello stato precedente all’inizio della guerra. Durante la guerra morì la madre Verde di Salizzole per cui unico parente stretto di Cangrande ancora in vita rimase il fratello Alboino.
Nel 1306-07 Canfrancesco effettuò qualche investitura feudale, tramite procuratori; nell’aprile del 1306 fu investito a sua volta (col fratello Alboino e il cugino Chichino) di un feudo dal vescovo di Vicenza. La sua prima comparsa in una campagna militare intrapresa da Alboino – signore dal 1304 – potrebbe essere fatta risalire al marzo del 1307, quando Cangrande ed il fratello guidarono le truppe scaligere a Serravalle Po.
Nel marzo 1308 a Parma era iniziata una lotta interna tra guelfi e ghibellini, così Mantova e Verona, alleatesi con Enrico di Carinzia e Tirolo, Otto III di Carinzia e i Castelbarco (questi ultimi storici amici di famiglia degli Scaligeri), decisero di intervenire con l’intento di ostacolare i guelfi parmensi, riuscendo a sconfiggere l’esercito nemico. Il 19 giugno l’esercito parmense subì un’altra sconfitta, questa volta a opera di Giberto III da Correggio, si avvicinava dunque la possibilità di portare la città sotto il controllo ghibellino. E infatti alla fine della guerra tornarono ghibelline sia Parma che Brescia, anche questa in parte protagonista della guerra. Il giovane Cangrande partecipò anche a questa guerra combattendo sotto l’esercito veronese, anche se il comando supremo delle forze armate spettò al più anziano ed esperto fratello.
Molti cronisti e storici, specie antichi, hanno insistito ripetutamente sulla predominanza al comando di fatto che Cangrande avrebbe esercitato nei confronti di Alboino, mentre è al contrario sicuro che sotto il profilo istituzionale era Cangrande ad affiancare, in posizione subordinata, il fratello: documenti diplomatici del 1308-09, provenienti tanto dalla Cancelleria scaligera quanto da quelle estense e tirolese, citano in primis Alboino, e Cangrande come “capitaneus penes eum” vale a dire con la stessa formula che designava, nell’ultimo decennio del Duecento, Bartolomeo nei confronti del padre Alberto.
Cangrande era conosciuto per la sua giovialità (anche se con un temperamento furioso nelle occasioni in cui qualcosa non andava come voleva lui), disponibile con le persone di tutti i ceti sociali. Egli era un oratore eloquente, tanto che l’argomentazione, le discussioni e il dibattito furono alcuni dei suoi passatempi preferiti, oltre alla caccia. Il suo coraggio in battaglia è ben documentato, e, negli anni che seguirono, la sua misericordia verso i nemici sconfitti impressionò anche i suoi avversari.
Nel 1308 Alboino decise di condividere il potere con un Cangrande ormai diciottenne, che fu quindi proclamato Capitano del popolo veronese e divenne coreggente e Signore di Verona. Nuovo obiettivo dei due Signori divenne indebolire la guelfa Milano, ancora asservita ai Della Torre. La prima opportunità arrivò dall’insurrezione antimilanese scoppiata a Piacenza nel 1309, durante la quale i piacentini riuscirono a scacciare i milanesi.
Nel 1308 si celebra anche il matrimonio di Cangrande con la prima donna di cui si innamorò, Giovanna d’Antiochia, figlia di Corrado di Antiochia e sorella di Costanza, già moglie di Bartolomeo: un altro legame dunque dei Della Scala con la discendenza dell’Imperatore Federico II. Cangrande non ebbe figli da costei (che sopravvisse a lungo al marito: morì infatti a Verona nel dicembre del 1351).
Il 13 giugno 1309 Piacenza formò una lega con Parma, Verona, Brescia, Mantova e Modena allargando così il conflitto. Gli Scaligeri inviarono i 500 migliori soldati veronesi a Piacenza dove sconfissero l’esercito nemico, mentre Parma inviò l’esercito, supportato da truppe veronesi, contro la guelfa Fidenza, ma il cattivo tempo obbligò a interrompere l’assedio e a iniziare le trattative per la pace, che sarebbe stata poi firmata entro la fine dell’anno.
Nell’estate del 1310 eserciti veronesi furono impegnati a sostegno di fazioni e famiglie ghibelline di città padane: assieme ai Bonacolsi – al tempo, e sino al 1328, fedeli alleati di Cangrande -, prestarono aiuto ai Reggiani estrinseci. Si venivano così consolidando per Cangrande, nella linea politica “interventista” già impostata da Alberto alla fine del Duecento, rapporti destinati a durare – come, appunto, quello coi Sesso – poi stabilmente presenti a Verona e Vicenza per tutto il Trecento.
Nell’estate del 1310 l’Imperatore Enrico VII di Lussemburgo preparava la sua discesa in Italia, alimentando le speranze dei ghibellini, che auspicavano una sua restaurazione e con l’intento di conciliare la parte guelfa con quella ghibellina sotto il vessillo di un impero unito. Alla comparsa in Italia dell’Imperatore (novembre del 1310), i domini veronesi – che già avevano manifestato il loro orientamento accogliendo con onore, nel luglio, i legati imperiali – inviarono ad Asti i propri rappresentanti, ovvero il giudice Bonmesio Paganotti e Bailardino Nogarola. L’assenza di Alboino e di Cangrande all’incoronazione milanese è stata ritenuta casuale (era del resto presente il vescovo di Verona, Tebaldo), ma va probabilmente collegata alle iniziative dei fuoriusciti guelfi veronesi, che puntavano ad ottenere l’arbitrium pacis ed il rientro in città (al che gli Scaligeri si opposero con fermezza, allegando il bando imperiale del 1239 contro di loro). A Verona venne nominato vicario imperiale Vanni Zeno da Pisa, credendo così di poter rendere attuabile il ritorno in città dei Sambonifacio, fatto inaccettabile per gli scaligeri, che in segno di protesta rinunciarono addirittura alla signoria, sicuri che il popolo veronese non avrebbe accettato di perdere i propri signori, come infatti accadde. Alla fine l’Imperatore, pentito dell’errore commesso, si trovò a fare affidamento sul sostegno dei ghibellini per raggiungere i suoi obiettivi: dovette presto ricredersi, e, il 7 marzo 1311, decise di nominare Cangrande e Alboino, primi in Italia, vicari imperiali.
A questo punto i due possedevano un doppio riconoscimento della loro autorità: assommarono l’investitura del Comune a quella dell’Imperatore. Il lato negativo del vicariato era però quello finanziario, infatti costava molto denaro ed era loro dovere avere un contingente di soldati che potessero scortare il sovrano o comunque servire in Lombardia. Il Comune di Verona promise ad Enrico VII 3.435 fiorini d’oro, mentre altri 3.000 fiorini furono spediti al vicario di Lombardia Amedeo di Savoia.
Quanto contasse la nuova posizione si vide comunque poche settimane più tardi, quando Cangrande prese parte personalmente, col rappresentante di Enrico VII, all’assoggettamento di Vicenza (sin allora controllata da Padova) all’Impero.
Non era ancora l’insignorimento scaligero di Vicenza, ma non fu comunque dovuto al caso che il secondo vicario imperiale della città berica fosse un sicuro amico dei Veronesi come Aldrighetto Castelbarco. Nel frattempo la confisca dei beni e delle giurisdizioni dei padovani nel vicentino scavava un solco incolmabile fra questa città e l’Imperatore, e contribuiva al prevalere di posizioni più rigidamente antimperiali, e quindi antiscaligere: si pongono alcune delle condizioni che faranno della lotta con Padova una delle costanti dell’attività politico-militare di Cangrande per oltre quindici anni.
Nell’aprile del 1311 Vicenza si ribellò a Padova, ed Enrico VII prese la questione come pretesto per costringere il Comune padovano ad accettare le sue richieste in seguito ad un attacco. Il comandante delle truppe imperiali raggiunse Verona con 300 cavalieri: i due fratelli scaligeri parteciparono all’impresa con le truppe ausiliarie di Verona a Mantova, ed il 15 aprile invasero facilmente Vicenza, mentre la rocca in mano ai padovani venne conquistata da Cangrande con truppe leggere.
Il 14 maggio gli Scaligeri giunsero all’accampamento di Brescia, dove la fazione guelfa si era impadronita del controllo della città in spregio ad Enrico VII. Durante l’assedio perirono per un’epidemia numerosi soldati: tra questi si ammalò anche Alboino, che fu portato a Verona da Cangrande, il quale, reclutata nuova fanteria e cavalleria, tornò a Brescia. Fu un momento decisivo del consolidamento del prestigio scaligero, e personale di Cangrande, all’interno dello schieramento ghibellino, infatti per questo merito gli venne affidato il comando supremo dell’esercito, anche se la città si arrese solamente il 16 settembre 1311. Dopo aver passato del tempo con il fratello ammalato Cangrande partì insieme ad una scorta per raggiungere Enrico VII a Genova. Cangrande fu raggiunto però dalla notizia delle gravi condizioni in cui versava il fratello, dovette quindi tornare a Verona, anche per via della possibile minaccia che rappresentava Padova. La notte tra il 28 ed il 29 novembre 1311 Alboino morì e Cangrande divenne l’unico Signore di Verona, all’età di ventidue anni. La salma di Alboino venne posta accanto a quella dal padre Alberto I.
Non vi fu alcun problema in merito alla successione: la congiuntura dinastica va del resto annoverata fra i motivi non secondari della tranquillità interna del regime scaligero, e dunque anche dei successi militari e politici di Cangrande, libero di allontanarsi anche a lungo da Verona. Nella famiglia scaligera non figuravano, all’epoca, che due maschi legittimi ed in età adulta: Federico del fu Piccardo di Bocca, più anziano di Cangrande di qualche anno, appartenente ad un ramo collaterale; e Francesco detto Chichino del fu Bartolomeo, nipote del Della Scala. L’uno e l’altro furono tra i suoi principali collaboratori, con un rilievo maggiore forse per Federico, sino al 1325 (quando fu esiliato), ma con un ruolo di prestigio anche Chichino, che fu piuttosto attivo sul piano militare. Il patrimonio di ambedue giunse poi nel 1325 nelle mani di Cangrande – per confisca in un caso, per eredità, si presume, nell’altro – e anche questa circostanza favorì la compattezza familiare.
Quando Cangrande assunse il potere, Verona era ancora un Comune modesto, se messo in confronto con il potente Comune di Padova, tanto che lo scaligero non era nemmeno in grado di pagare il tributo ad Amedeo d’Aosta. Nonostante ciò egli adempì sempre ai suoi doveri nei confronti dell’Impero: lo dimostrò ancora una volta quando i guelfi bresciani tentarono di far insorgere la città, e Cangrande intervenne per sventare il complotto. Cangrande si rivelava, dunque, fondamentale per la causa ghibellina.
Cangrande, l’11 aprile 1311, si era recato a Vicenza, dove assunse il vicariato della città, grazie ad un atto di opportunismo politico, approfittando delle controversie della città con i suoi ex-padroni di Padova. Enrico VII aveva bisogno di un sostegno economico per raggiungere Roma, per cui diede la carica allo scaligero dietro il pagamento di una forte somma di denaro, che riuscì in breve tempo a guadagnarsi la stima del popolo.
Il problema dell’acquisizione del controllo del territorio vicentino si poneva ora solo in termini militari. Il consolidamento dell’autorità veronese fu portato avanti con fermezza negli anni successivi, nonostante i tentativi compiuti dai guelfi locali, appoggiati dai padovani, nel marzo-aprile del 1312, e poi nel 1314 e 1317. Oltre al prestigio di cui godeva Cangrande presso la nobiltà militare locale (contrapposto ai sospetti che si nutrivano a Vicenza contro il ceto dirigente padovano, più che mai desideroso di recuperare i beni fondiari e i castelli detenuti fino al 1311, quando erano stati confiscati per la ribellione all’Impero), svolsero allora un ruolo importante sia l’abile operato di prestigiosi collaboratori come Bailardino Nogarola, podestà di Vicenza per oltre un decennio, e di influenti giudici, come Bonmesio Paganotti, sia il controllo prontamente acquisito sull’episcopato vicentino, occupato per vari decenni da veronesi.
Anche se mancano dati precisi, sembra che il ceto dirigente vicentino sia stato sostanzialmente rispettato, dal punto di vista patrimoniale. In ogni caso, in proporzione ai danni gravissimi ripetutamente subiti dal territorio e all’impegno militare (frequente nelle cronache è il ricordo della partecipazione dei vicentini comandati dal Nogarola alle imprese militari di Cangrande) e forse fiscale, si deve ritenere sostanzialmente soddisfacente l’assestamento raggiunto, già dominante Cangrande, dai rapporti fra la signoria scaligera e Vicenza. Fu, per lo “Stato” scaligero, un’acquisizione definitiva.
I vicentini, sicuri dunque dall’aiuto scaligero e imperiale, iniziarono a irritare i padovani, arrivando addirittura a deviare il corso del fiume Bacchiglione, danneggiando così l’economia della città guelfa.
Alla fine Padova acconsentì alla nomina di un vicario imperiale e al pagamento di 20.000 fiorini annui in cambio di numerose concessioni e al pagamento da parte di Vicenza dei danni subiti dalla deviazione del fiume: il consiglio vicentino però si rifiutò di pagare, dando così il via a numerose liti su varie questioni, in particolare sulla restituzione a Padova di alcuni fondi rurali. I padovani mandarono degli ambasciatori all’Imperatore perché risolvesse la questione: Enrico cercò di riappacificare le due città, imponendo comunque a Vicenza di riaprire il corso originario del Bacchiglione.
Il 28 gennaio 1312 giunse a Padova la notizia ufficiale che Cangrande era stato nominato vicario di Vicenza, così il consiglio cittadino decise di riunirsi, soprattutto per via delle insistenti voci che parlavano di Padova come obiettivo dello scaligero: durante la seduta del 15 febbraio il consiglio decise di dichiarare guerra a Verona, mentre in strada la folla distruggeva tutto ciò che era insignito dell’aquila imperiale, e presto cominciarono le prime ruberie in territorio vicentino. La sfida all’Imperatore, che aveva sostenuto l’elezione di Cangrande a vicario imperiale di Vicenza, gli diede il pretesto per muovere guerra a Padova.
Nella primavera del 1312 l’esercito padovano iniziò ad attuare brevi incursioni in territorio vicentino e veronese, e fu così che Cangrande per diciotto mesi venne messo in difficoltà, anche perché Padova era un comune ricco e potente, con forze militari maggiori di quelle di cui aveva a disposizione in quel momento Cangrande. Nonostante ciò riuscì a portare il grosso dell’esercito veronese in territorio padovano, dando inizio ad una serie di devastazioni. Le prime incursioni veronesi videro una sconfitta presso Camisano Vicentino, e successivamente la conquista del castello di Montegalda, importante baluardo per Padova. Questo venne quindi dotato di una guarnigione, mentre poco dopo Cangrande tornò a Verona, anche se i padovani presto iniziarono la controffensiva da Montagnana, da cui raggiunsero e devastarono Minerbe, Pressana e Legnago, mentre Cologna Veneta venne incendiata.
A marzo le truppe padovane si trovavano tra Vicenza e Verona, minacciando così entrambe le città: i padovani decisero di dirigersi su Vicenza, sapendo che all’interno della città si stava sviluppando il complotto dei cittadini guelfi. Alcune sentinelle veronesi videro l’avanzata nemica e si precipitarono ad avvertire il comandante della città, Federico della Scala. Intanto le prime scaramucce tra truppe padovane e vicentine si ebbero a Torri di Quartesolo, dove i secondi vennero respinti, subendo notevoli perdite. Cangrande fu informato della disfatta delle truppe vicentine, raggiunse quindi la città, ordinando di chiudere le porte e di arrestare tutti i sospetti traditori: questi in parte riuscirono a fuggire, e in parte furono catturati, e quindi o esiliati o condannati a morte.
I padovani, persa la possibilità di conquistare Vicenza, decisero di attaccare Marostica, che cedette grazie all’arrivo di rinforzi da Bassano del Grappa, e successivamente numerosi borghi e villaggi vicentini. Per vendicarsi Cangrande giunse con le truppe a pochi chilometri da Padova, di cui distrusse i sobborghi, mentre Montagnana venne conquistata e incendiata: Padova inviò immediatamente aiuti all’importante città, per cui Cangrande fu costretto a ritirarsi verso Vicenza. Intanto i padovani conquistarono e distrussero a loro volta Noventa Vicentina. Divenendo la situazione critica Cangrande fu costretto a rivolgersi al luogotenente di Lombardia Wernher von Homberg, il quale arrivò con truppe nuove e razziò alcuni villaggi, anche se presto dovette tornare in Lombardia, dove erano scoppiate alcune insurrezioni.
Feltre, Treviso, Belluno e Francesco d’Este si allearono con Padova, formando così un esercito di 17.000 uomini: le truppe, il 1º giugno 1312, partirono per Quartesolo, dove si accamparono. La fanteria leggera fu mandata in spedizione a razziare i campi e i villaggi vicino Vicenza. In città Cangrande guidava 800 cavalieri e 4.000 fanti, per cui i padovani, che non si sentivano pronti per attaccare direttamente la città, decisero di proseguire lungo il Bacchiglione, dato che ormai Padova soffriva per la mancanza d’acqua, ma fu per loro impossibile riportare sul corso naturale il fiume, dato che il luogo era stato protetto da fortificazioni e torri. Fu lì che Cangrande riuscì a prendere di sorpresa alcune truppe nemiche, di cui morirono, durante la battaglia, circa 400 soldati. I rinforzi padovani riuscirono però a scacciare i veronesi. Nonostante la vittoria i padovani non riuscirono a deviare il corso del Bacchiglione nel suo normale letto, mentre Cangrande cercava di spingerli verso Castagnaro. I padovani si portarono successivamente nuovamente verso il territorio vicentino, dove depredarono alcuni villaggi, portando poi il bottino a Bassano del Grappa, in seguito a una sconfitta in una piccola battaglia con Cangrande e i suoi 200 uomini di scorta. Intanto la guarnigione di Cologna Veneta venne nuovamente sopraffatta, e i padovani riuscirono a catturare alcuni vessilli scaligeri.
Fino a questo punto la guerra si era svolta con razzie e piccole scaramucce, nonostante la superiorità economica di Padova e l’importante aiuto militare degli alleati, anche perché Cangrande evitò lo scontro campale, date le superiori forze nemiche. Dopo che nel giugno 1312 anche a Modena avevano preso il sopravvento i guelfi, Padova decise di portare una grande spedizione contro Vicenza, che poté marciare relativamente tranquillamente fino a raggiungerla, mentre Cangrande si trovava a Verona. Qui i padovani cominciarono a saccheggiare i sobborghi cittadini, e riuscirono, in questa occasione, a reincanalare il Bacchiglione. Dato che Vicenza non voleva arrendersi, l’esercito venne spostato per conquistare Pojana, un importante castello sulla strada che da Padova porta a Vicenza, il quale venne espugnato dopo un breve assedio. Impossessatisi del castello, a fine luglio l’esercito ritornò a Padova.
Seguirono ancora razzie padovane, mentre Cangrande, sulla difensiva, cercava di limitarle, riuscendo nonostante questo a mantenere il controllo di Vicenza, anche grazie alla disorganizzazione delle truppe patavine. Intanto Padova perdeva l’importante alleanza di Treviso, dato che questa pretendeva il comando dell’esercito. A questo punto Wernher von Homberg poté nuovamente avanzare in aiuto di Cangrande, che, poco prima del suo arrivo, riuscì a impadronirsi del castello di Lozzo, grazie ad un patto segreto con il comandante della fortezza. Riuniti, Wernher e Cangrande, assalirono il 7 gennaio 1313 Camisano Vicentino e ne distrussero il castello. Il 2 febbraio 1313 i padovani si spinsero sino nel territorio veronese, dove continuarono i saccheggi e le devastazioni. I padovani tentarono più volte l’assedio del castello di Lozzo, data la sua importanza strategica, fin quando Cangrande decise di distruggerlo, dato che la sua difesa era divenuta troppo costosa. Intanto si riaccese la guerra con Padova, e ricominciarono le devastazioni, sia nel padovano che nel vicentino: in una di queste occasioni venne tentato un agguato a Cangrande, durante il quale venne ucciso il suo cavallo, anche se lui riuscì a salvarsi. Cangrande tornò quindi sulla difensiva, e, per sua fortuna, la guerra tornava a raffreddarsi, soprattutto durante l’estate.
Le lotte intestine di Padova e il ritorno di Enrico VII di Lussemburgo dal suo viaggio a Roma fecero tornare l’alta Italia in uno stato di guerra, e Cangrande dovette inviare una spedizione a Modena per difenderla dalle città guelfe che la minacciavano, mentre Padova inviava aiuti a Firenze alla fazione guelfa. Enrico VII decise quindi di decretare ufficialmente Padova traditrice dell’Impero, togliendole ogni privilegio e diritto, e condannandola a una forte multa. I padovani decisero di proseguire con la difesa della città, dato che al momento l’Imperatore non aveva mezzi sufficienti per poterla conquistare, anche se si alleò con Cangrande, Castelbarco, con il re di Boemia, il conte di Gorizia e il vescovo di Trento. In breve tempo l’Imperatore riuscì a reclutare un esercito di 823 cavalieri pesanti e 6.000 cavalleggeri.
Nei mesi successivi, le ostilità con Padova continuarono sia sul piano diplomatico (Cangrande trattò con Enrico di Gorizia e con Guecellone da Camino, da poco signore di Treviso, un’alleanza in funzione antipadovana, rafforzata da matrimoni politici combinati per Alberto e Verde di Alboino, suoi nipoti), sia su quello militare: sfruttando l’amicizia dei da Lozzo, famiglia signorile padovana, Cangrande ebbe i castelli di Lozzo e Boccon (dicembre 1312-marzo 1313).
I padovani seppero che si stava creando l’alleanza tra Verona e Friuli, decisero quindi di mandare una spedizione presso Ceneda, impedendo in tal modo l’attraversamento tra Friuli e Verona tramite Treviso, mentre le guarnigioni di Conegliano, Bassano del Grappa e Cittadella furono rinforzate. Intanto Treviso cercava di mantenere una posizione neutrale, per non incorrere in una guerra contro Verona e il conte di Gorizia (dato che si trovava strette tra le due forze) o contro Padova (con la quale era molto legata per via della posizione geografica molto ravvicinata).
Nei mesi successivi (maggio-giugno 1313), mentre era richiesto di aiuto da Enrico VII in Toscana e dal Bonacolsi a Modena, Cangrande – in genere presente in prima persona ai combattimenti – continuò la guerra contro le due città guelfe di Padova e di Treviso (ritornata al reggimento comunale) con l’appoggio di Enrico di Gorizia, dei Castelbarco, del vescovo di Trento.
I padovani, per separare ulteriormente Friuli e Verona, il 21 giugno 1313 mandarono rinforzi ad Este e Montagnana, da dove partirono alla volta di Arcole, dove, dopo una breve battaglia, riuscirono a conquistare il castello.
Mentre Cangrande si trovava a Vicenza le truppe patavine si avvicinavano a Verona, dove Federico della Scala diede ordine di chiudere le porte e di erigere barricate. Il podestà di Padova diede dunque l’ordine di rientrare, dato che l’esercito non era attrezzato per un lungo assedio: in compenso durante la ritirata abbatterono diversi castelli e razziarono il territorio. Nell’agosto 1313 Treviso decise infine di allearsi a Padova, dato che non gli era più possibile rimanere neutrale, in seguito a brevi scontri con il conte di Gorizia che si era seccato del continuo tergiversare dei trevigiani.
La situazione cambia però con la morte dell’Imperatore Enrico VII di Lussemburgo (che sul letto di morte raccomandò la difesa dell’Impero a Cangrande) il 24 agosto 1313, che liberò in questo modo da una parte Cangrande dal suo obbligo di fornire risorse militari e finanziarie all’Imperatore; d’altra parte però, con la sua morte, il guelfismo recuperava forza, mentre nell’alta Italia la fazione ghibellina poteva contare solo su quattro grandi città: Verona, Milano, Mantova e Pisa. Di queste Verona era la più compatta politicamente e sostenuta dal popolo, e si assunse perciò la responsabilità di assumere la guida della fazione ghibellina.
Ripresero intanto le scorrerie padovane, mentre i vicentini deviavano ancora il corso del Bacchiglione. Il 1º novembre 1313 vennero cacciati da Padova tutti i sospetti ghibellini e traditori: la città diveniva così il maggiore centro guelfo, mentre gli statuti venivano cambiati, e così anche il governo della città. Tuttavia, questo cambiamento, comportò una momentanea disorganizzazione all’interno della città, che favorì in tal modo lo scaligero, anche se non sfruttò il momento per un’azione militare.
Le due parti, stremate dalla guerra e dalle pestilenze, erano in ricerca di un accordo, ma non vi fu nulla di concreto, mentre il periodo invernale passava senza azioni di rilievo. Cangrande congedò gran parte dell’esercito, e, nel marzo 1314, poteva contare nuovamente su un esercito di 3.000 cavalieri e 13.000 fanti. Il primo atto di Cangrande – che, dopo la morte di Enrico VII, aveva mantenuto il titolo di vicario imperiale – fu l’importante conquista di Abano Terme, che venne incendiata, mentre i padovani continuarono con la tattica delle razzie dei territori nemici. Intanto a Padova, dove continuava la caccia dei ghibellini, vennero arrestati alcuni membri della famiglia Da Carrara, che però godevano della stima del popolo. Ed infatti ebbe luogo un’insurrezione che, a fatica, il consiglio cittadino riuscì a fermare.
Nel frattempo a Padova venne eletto podestà Ponzino de’ Ponzini, il quale messo a capo dell’esercito, durante una battaglia presso il Brenta, riuscì ad ottenere un’importante vittoria contro i soldati vicentini, tanto che in pochi riuscirono a fuggire e a raggiungere Vicenza. La vittoria portò i padovani a sperare nuovamente nella vittoria, e a riprendere le sortite contro Vicenza, di cui, il 15 luglio 1314, raggiunsero il sobborgo di San Pietro, anche se Cangrande – che diede prova di grande valore personale – riuscì a batterli e ad obbligarli alla ritirata. Il Comune di Padova, per risolvere il problema dell’approvvigionamento d’acqua, decise di costruire un nuovo canale che prendeva l’acqua dal Brenta: in questo modo la deviazione del Bacchiglione diveniva un problema minore.
Importante azione di Cangrande fu l’attacco dei sobborghi di Padova, che gli diede la possibilità di firmare un breve armistizio: durante questa breve tregua mandò le truppe ausiliarie in aiuto di Pisa e Milano, ma dopo le inutili trattative di agosto Cangrande dovette però riprepararsi alla guerra. I padovani occuparono con 2.000 uomini San Pietro (sobborgo di Vicenza), in modo da intralciare l’aiuto di Cangrande ai ghibellini milanesi, e ai Visconti in particolare.
Nogarola, podestà di Vicenza e amico di famiglia di Cangrande, fece chiudere e difendere le porte di Vicenza, in questo caso seriamente minacciata. Le truppe padovane, che erano partite con numerose provviste da Padova, si stavano preparando all’assedio, ma Cangrande, che in quel momento si trovava a Verona, venuto a conoscenza di quello che stava accadendo, partì precipitosamente con poca scorta a cavallo, per raggiungere velocemente Vicenza: egli riuscì a coprire a cavallo solo tre quarti della distanza, poiché il destriero non aveva più forze, e dovette quindi chiedere un passaggio su un carro di un contadino.
Arrivò a Vicenza la mattina del 17 settembre, percorrendo la distanza in sole quattro ore, impresa che sbalordì i presenti: incoraggiato subito il popolo, fece raggruppare e riorganizzare i soldati, rincuorati dall’eroico arrivo di Cangrande. Pregata la Vergine Maria, a cui Cangrande era devoto, con soli cento cavalieri uscì dalla porta principale della città: dopo essere stato inizialmente respinto riuscì a reclutare alcuni soldati vicentini che erano stati messi in fuga dai sobborghi della città. Cangrande comandò allora l’attacco a San Pietro, facendo immediatamente fuggire il comandante delle truppe padovane. Lo storico Albertino Mussato, che era con le forze padovane, racconta come questo improvviso assalto rapidamente si sviluppò in un accerchiamento dell’esercito padovano. Cangrande, in piedi sulle staffe, esortò i suoi seguaci a uccidere il vile nemico. Dopo la cruenta sconfitta le truppe padovane si diedero alla fuga, mentre lo stesso Mussato venne fatto prigioniero. Vista la ritirata nemica Cangrande si precipitò sul campo di battaglia, dove il nemico si difese fiaccamente.
Alla fine della battaglia furono catturati e condotti a Verona 773 prigionieri, mentre nell’accampamento padovano furono requisiti viveri, argenterie, armi, attrezzi, tappeti e oggetti preziosi, che, caricati su 700 carri, furono condotti prima a Vicenza, e quindi a Verona: il danno per i padovani era incalcolabile, e la vittoria dello scaligero era netta. Il 17 settembre, giorno della battaglia di San Pietro, divenne festa solenne, che sarebbe stata festeggiata a lungo, dato che sanciva definitivamente la conquista di Vicenza: con questa vittoria la fazione ghibellina riprendeva speranza.
A Padova intanto arrivavano feriti e fuggiaschi della dura battaglia, mentre tra la popolazione cominciava a diffondersi il panico, anche se l’arrivo di Ponzino tranquillizzò in parte il popolo. Si deliberò subito il rinforzo delle difese, mentre arrivavano supporti dalle altre città guelfe, in particolare da Bologna. Cangrande non poté però attaccare la città per via del mal tempo, che aveva causato numerosi allagamenti. La vittoria di Cangrande era completa, e grazie a questa migliorò ancora la sua reputazione: riuscì a guadagnare anche la riluttante ammirazione di uomini come Mussato, il quale si opponeva ardentemente a Cangrande per il suo stile autocratico.
Fu allora che Bonacolsi e Castelbarco suggerirono a Cangrande di stipulare una pace. Venezia spedì ambasciatori a Verona e Padova offrendosi di condurre le trattative, dato che era nei suoi interessi avere la sicurezza sulle tratte commerciali: le due parti accettarono. Nei patti Vicenza diveniva ufficialmente parte della signoria scaligera, mentre venivano assicurate le libertà di Padova, e Venezia si faceva garante della pace. Il trattato venne approvato a Verona, Vicenza e Padova e la pace venne proclamata ufficialmente il 6 ottobre. Tornava quindi la pace dopo tre anni di lotte, razzie e battaglia. Cangrande era riuscito in definitiva a battere un avversario superiore per forza militare e prosperità economica, andando così ad inserirsi nei rapporti tra potenze dell’alta Italia.
La battaglia di San Pietro mostrò le qualità per cui divenne popolare Cangrande: il quasi sconsiderato coraggio in battaglia e la sua magnanimità verso i nemici sconfitti, alcuni dei quali divennero suoi amici. Tra i prigionieri vi furono anche nobili influenti come Jacopo da Carrara e suo nipote Marsilio da Carrara. È tra l’altro di questo periodo il massiccio stanziamento, previo consenso degli scaligeri, di popolazioni tedesche nei Lessini (altopiano, allora quasi spopolato, a nord di Verona), che furono chiamati in seguito Cimbri, anche se una loro presenza era già attestata dall’ottenuta investitura del 1287 dal vescovo Bartolomeo della Scala.
L’intensissima attività diplomatica, politica e militare dispiegata da Cangrande in questi primi anni del suo governo (e nei seguenti) pone il problema di una conoscenza adeguata ed approfondita dei suoi collaboratori. Il problema è di rilevante importanza giacché coinvolge quello del rapporto tra la signoria scaligera e la società veronese non meno del rapporto tra la signoria medesima e le élites politico-militari delle città vicine con le quali Cangrande consapevolmente si collega: in altre parole, ci si chiede in quale misura i collaboratori di Cangrande sono di estrazione veronese, e in quale di provenienza extracittadina; e in questi casi, quanti di costoro si installano stabilmente presso la “corte”, perdendo i collegamenti con le località di origine; e se vi è, inoltre, una differenziazione di “livelli”, di mansioni svolte dagli uni e dagli altri. È una serie di interrogativi ai quali è difficile, allo stato attuale degli studi, dare una risposta; sono poche infatti le indagini monografiche a nostra disposizione su famiglie e su singoli personaggi connessi con la “corte” scaligera (Bailardino Nogarola, Pietro da Sacco, Spinetta Malaspina e poco altro) e poche sono, di conseguenza le personalità di quel periodo di cui ci sia nota la carriera. Si può però dire che in questa prima fase è ancora molto forte l’incidenza del personale veronese o veronesizzato, impiegato anche in mansioni di grande impegno. Fra i giudici, i notai, i milites impegnati nel secondo decennio del Trecento nell’attività diplomatica, una buona parte figura già tra i collaboratori di Alberto o dei fratelli e predecessori di Cangrande: non vi fu dunque una rottura sotto questo profilo rispetto al recente passato. Sono uomini talvolta di origine modesta, provenienti dal notariato o dal commercio, che “crescono” con gli Scaligeri: ricordiamo, fra gli altri giudici, Bonmesio Paganotti, Nicola de Altemanno, Corrado de Zicis da Imola, Guglielmo di Servideo; i notai Alberto e Grandonio de la Colcerella, Ivano de Berinço, Giovanni Pellegrini, Bonaventura da Santa Sofia; mentre muovono i primissimi ma significativi passi famiglie come quelle dei Bevilacqua e dei Cavalli.
Diverso il discorso per i milites destinati a carriere importanti, alle grandi podesterie dentro e fuori del dominio scaligero, o ai capitaniati nelle città conquistate: fra costoro troviamo esponenti di famiglie veronesi di buona tradizione politica (il noto Bailardino Nogarola, Pietro Dal Verme, un fiorentino naturalizzato veronese come Bernardo Ervari, figlio del “magnus mercator” Ranuccio), ma anche immigrati ghibellini della prima ora, come un Bonifacio Carbonesi o un Pietro Nano da Marano.
Un terzo punto di riferimento può essere intravisto in una cerchia di “socii” (l’appellativo è in qualche caso usato) di Cangrande, connotata da un punto di vista militare e più aperta, per questa sua stessa natura, ad apporti esterni: in quest’ambito potremmo forse inserire Guinicello Principi, di origine bolognese ma veronesizzato, “socius” di Cangrande; Ziliberto del fu Zaoliveto, figlio di un miles borgognone, detto da un certo momento in poi “collateralis” (a lui, con apposito diploma il Bavaro assegnerà nel 1327 tutti i beni già di Ezzelino; fu lui l’incaricato di proporre agli organismi comunali veronesi, alla morte di Cangrande, il conferimento dell’arbitrium ai nipoti ed eredi di quest’ultimo); Uguccione Della Faggiuola; lo stesso Spinetta Malaspina. Fra costoro andranno ricercati i “capitanei forensis militie” (le cronache attestano che cavalieri tedeschi furono assoldati almeno dal 1314; sono inoltre citati francesi e, ovviamente, italiani), e i “capitanei guerre”, cariche più volte attestate dal 1313-14 (le ricoprono: Uguccione Della Faggiuola; il miles pistoiese già legato ad Enrico VII Simone Filippo de Realibus; un altrimenti ignoto Cittadino da Rimini; Spinetta Malaspina). In sostanza, già nel secondo decennio del Trecento la “corte” di Cangrande è segnata da una vivace e variegata presenza di milites inaugurando una tradizione che sarà poi portata avanti da Mastino II. Va anche ricordato a questo proposito che quella della struttura e delle caratteristiche dell’esercito rimane del resto un’incognita, e non delle minori, della storiografia scaligera, particolarmente forse per quest’epoca di incipiente, ma certamente non ancora avvenuta smilitarizzazione della società cittadina. Dalle notizie cronistiche emerge la costante presenza degli eserciti cittadini a fianco della cavalleria forensis, mercenaria o no.
Si chiarivano sempre meglio, intanto, le dislocazioni politiche delle città dell’Italia padana, in questi anni fra la morte di Enrico VII e l’inizio dell’offensiva guelfa orchestrata, a partire dal 1316, da Papa Giovanni XXII. L’alleanza delle tre signorie ghibelline di Mantova, Verona e Milano era destinata a restare per diverso tempo un punto di riferimento stabile di fronte al mutevole succedersi di egemonie famigliari o di parte nelle città emiliane e lombarde. I rapporti tra Verona e Milano restarono a lungo buoni, non sussistendo ancora (come accadrà in seguito) contrasti relativamente a Brescia. L’alleanza tradizionale con la signoria “gemella” dei Bonacolsi a Mantova, consolidatasi parallelamente alla scaligera nell’ultimo trentennio del Duecento garantiva d’altra parte la sicurezza di Verona sul confine occidentale consentendo al signore di Verona una politica aggressiva nella Marca. Senza dubbio, dunque, ragioni di generale opportunità strategica indussero Cangrande ai ripetuti interventi militari in Emilia e Lombardia; essi si affiancarono ai motivi di prestigio, al coerente sostegno alla parte ghibellina.
Nell’aprile del 1315 Cangrande sostenne l’attacco mosso dai Visconti contro Parma correggesca, fungendo poi da mediatore negli accordi di San Zenone in Mozzo (luglio 1315). Durante il periodo in cui l’autorità imperiale era vacante i baluardi della fazione ghibellina furono Pisa, Milano e Verona. Pisa era però messa in difficoltà dalle vicine città guelfe, per cui Cangrande decise di andare in suo soccorso (Cangrande era alleato di Uguccione Della Faggiuola sin dal 1314): nell’agosto 1315 grazie all’apertura di un secondo fronte i fiorentini subirono una disfatta a Montecatini e persero circa 2.000 soldati. La sconfitta di Firenze fu un duro colpo per i guelfi di tutta Italia. L’11 settembre venne firmata l’alleanza tra Verona, Mantova, Modena, Lucca e Pisa. Nell’ottobre, con il Bonacolsi, Cangrande attaccò il territorio cremonese conquistando vari castelli e inducendo la fazione ostile ai Cavalcabò a schierarsi con lui; quando Cremona cadde in mano a Giberto da Correggio favorì con gli altri signori ghibellini la ribellione popolare in Parma, guidata dai Sanvitale (luglio 1316).
Nell’ottobre 1315 Passerino Bonacolsi e Cangrande della Scala, da sempre alleati, iniziarono un tentativo di assoggettare Cremona, Parma e Reggio: il primo passo era la conquista del cremonese, la quale non presentò rilevanti problemi, dato che i castelli erano poco numerosi, mentre la città era immiserita. Dagli assedi di città e fortezze, in particolare da Sabbioneta, Piadena, Casalmaggiore e dai sobborghi di Cremona Cangrande recuperò un ricco bottino, che portarono a Verona a inizio luglio del 1316. A questo punto la situazione di Cangrande si faceva però difficile: Cremona, Parma e Reggio si riunirono sotto un’unica Signoria, mentre a Brescia prendevano il sopravvento i guelfi, e in tal modo si interrompevano le vie di comunicazione tre le alleate ghibelline Verona e Milano.
Nel biennio 1315-16 la situazione politica della Marca era rimasta tranquilla, con due schieramenti ormai consolidati (Padova e Treviso da un lato; Cangrande e il conte di Gorizia dall’altro) in permanente tensione. Neppure l’adesione all’alleanza fra Cangrande ed Enrico II di Gorizia di Guecellone VII da Camino, signore di Feltre e Belluno – adesione sancita nel dicembre 1316 dal matrimonio fra Verde, nipote di Cangrande, ed il figlio di Guecellone – portò nell’immediato a modifiche dello status.
All’inizio dell’inverno la guerra era ormai latente, tanto che Padova si impegnò a reclutare 8.000 fanti e 800 cavalieri, mentre Treviso 4.000 fanti e 400 cavalieri, anche se non era di fatto scoppiata. Nel gennaio 1317 Cangrande – primo, con Passerino Bonacolsi, fra i signori italiani – prestò il giuramento di fedeltà a Federico I d’Asburgo detto il Bello, il quale diede la nomina a Cangrande di vicario imperiale unico di Verona e Vicenza, ed il 16 marzo 1317 Cangrande lo riconobbe ufficialmente come Imperatore dei Romani; pochi giorni più tardi gli giunse l’intimazione da parte Papa Giovanni XXII di rinunciare al vicariato, seguita poi dalla legazione di Bertrand de la Tour e Bernard Guy (agosto 1317), che trattarono con Cangrande la pace con Brescia, oltre che della questione del vicariato. Cangrande però rifiutò lo stesso, poiché il titolo gli era stato conferito a vita e la sua risposta portò alla scomunica, comminatagli il 6 aprile 1318. Durante l’inverno il vicario continuò l’opera riformatrice delle finanze e dell’esercito.
Cangrande però fu messo in grave difficoltà nella primavera del 1317 dal coordinamento politico operante fra le città guelfe: lo svolgersi degli avvenimenti dimostra tuttavia come il valore personale e le doti di combattente dello Scaligero fossero componenti importanti dei suoi successi politico-militari. Cangrande, alleato a Matteo Visconti, preparò una spedizione contro i guelfi di Brescia, ignorando le minacce di scomunica da parte del Papa e ribadendo con i fatti la sua fede ghibellina: subito conquistò importanti castelli di concerto con il temuto capitano di ventura toscano Uguccione della Faggiola, come Ghedi, Montichiari. Mentre Cangrande si stava preparando ad assediare Lonato, i guelfi vicentini tramavano per riportare la città sotto il controllo di Padova: essi, guidati dal guelfo Vinciguerra da Sambonifacio, la cui famiglia era stata esiliato da Verona da Mastino della Scala, si erano preparati per consegnare la città la mattina del 22 maggio 1317, mentre l’esercito padovano attendeva non troppo lontano dalla città, pronto ad intervenire. Il podestà di Vicenza, Nogarola, venne però avvertito del complotto, a fece a sua volta avvertire immediatamente Cangrande, che decise subito di lasciare la prosecuzione della guerra ai ghibellini bresciani, mentre lui si diresse verso Vicenza (maggio 1317). Intanto le truppe padovane (4.000 cavalieri e 1.500 fanti) cominciarono l’avanzata verso Vicenza, mentre Cangrande aveva raggiunto Verona e si diresse segretamente verso Vicenza con tre fedeli. La mattina del 22 Cangrande era già in città, insieme all’alleato Uguccione della Faggiola, quando iniziò l’assedio, con 200 padovani che entrarono in città grazie all’uso di scale: quando furono entrati Cangrande aizzò la popolazione contro di loro, e i nemici furono uccisi o catturati.
Sambonifacio non sapeva cosa stava succedendo in città, e aspettava che i cospiratori o i soldati aprissero le porte. Cangrande fece aprire le porte, e davanti a lui si apriva prima la fanteria, e quindi un esercito di 4.000 cavalieri: egli uscì con 40 cavalieri, riuscendo a passare la fanteria padovana, che li aveva scambiato per vicentini alleati, partì dunque all’attacco di Sambonifacio attraversando le linee nemiche, mentre Uguccione con una forza maggiore attaccò da dietro, riuscendo così a prendere alla sprovvista le truppe padovane. Cangrande e i suoi 40 cavalieri fecero strage dei padovani, e lo stesso la seconda schiera partita dopo di lui dalla porta vicentina. Vennero catturati 500 padovani, tra cui lo stesso conte da Sambonifacio, con cui Cangrande mostrò ancora una volta la sua magnanimità, dato che lui fu gravemente ferito nel conflitto, e venne fatto curare nel suo palazzo, e gli offrì un magnifico funerale per la sua morte, avvenuta un paio di settimane più tardi, nonostante lui e la sua famiglia fossero gli storici nemici degli scaligeri.
Sono questi bei gesti di gratuita, cavalleresca magnanimità che alimentarono, presso i contemporanei, la “leggenda” di Cangrande. Né è del resto da escludere che si tratti di gesti anche politicamente paganti, nel contesto di una azione nella quale il collegamento con le élites militari delle diverse città ha un ruolo di grande rilevanza, ridotto ma non annullato dallo schieramento partitico.
Antonio da Nogarola venne mandato dal doge di Venezia per richiedere un pagamento da parte di Padova, poiché aveva rotto la pace stipulata di cui Venezia si era fatta garante. Uguccione della Faggiuola, che rimase fedele allo scaligero sino alla morte, venne nominato podestà di Vicenza, per il servigio reso durante la battaglia. Verona stava trasformandosi nel maggiore centro ghibellino, e la fama di Cangrande attirava numerosi seguaci dell’Impero; molteplici furono le iniziative politico-diplomatiche dell’estate del 1317: l’invio di Pietro Dal Verme come podestà a Parma, e di Federico Della Scala a Modena, in connessione con le esigenze della signoria mantovana; aiuto a Rinaldo ed Obizzo d’Este, in Ferrara, contro i mercenari guasconi di Roberto d’Angiò. Intanto intraprendeva guerre contro altre città guelfe, anche se preferì successivamente riprendere quella contro Padova, dato che i padovani si erano rifiutati di pagare il tributo. In quel periodo era in corso una dieta delle città ghibelline, durante la quale si decise di fornire i Visconti e gli Scaligeri di un esercito. Intanto il conte di Gorizia riuscì a raggiungere Verona con 200 soldati, mentre Treviso voleva mantenere la pace per via delle lotte interne ed esterne in cui era impegnata. Intanto Uguccione aveva preparato l’assalto di Monselice, castello fondamentale per Padova sulle pendici orientali dei Colli Euganei.
Il 20 dicembre Cangrande partì da Verona con l’esercito reclutato insieme a Uguccione della Faggiuola ed il conte Enrico di Gorizia: nella notte raggiunsero la città dove era stata aperta una porta da alcuni congiurati, riuscendo così a conquistarla senza neanche lottare. Il 22 raggiunse Este, di cui pretese la resa: come risposta dalla città partì una fitta pioggia di frecce che ferì lo stesso Cangrande e suo nipote. L’esercito passò allora all’attacco riuscendo a vincere la resistenza, così Cangrande poté passare il Natale nella città conquistata. Il 27 dicembre riprese la marcia veronese, e, lo stesso giorno, cadde anche Montagnana. Nei giorni successivi caddero in mano veronese numerosi castelli e villaggi, mentre Padova era in piena guerra civile. Essa richiese ed ebbe una tregua momentanea, così Padova riuscì ad avere aiuti da alcune città guelfe.
Alla fine del gennaio 1318 riprese l’avanzata per la conquista di Padova, arrivando ad un corso d’acqua difeso da fortificazioni: qui Cangrande attaccò le file nemiche con 6 o 7 cavalieri di scorta, così che le truppe veronesi appena giunte sul posto seguirono il suo esempio e riuscirono a mettere in fuga i padovani. Ormai Cangrande era alle porte di Padova. Il 28 gennaio Cangrande fece distruggere circa 500 case e palazzi dei sobborghi di Padova, e nel frattempo arrivavano 360 cavalieri inviati dai Visconti, oltre a truppe del duca di Carinzia e dei Castelbarco: ormai l’esercito di Cangrande era costituito da ben 3.000 cavalieri e 15.000 fanti.
Il 9 febbraio le truppe erano pronte e schierate per l’assedio, pronti a ricevere gli ambasciatori padovani per l’ultima trattativa, dopo che numerose altre erano state inutili. Padova accettò infine di perdere Monselice, Montagnana, Este e Castelbaldo in cambio della pace. Inoltre si impegnavano a reintegrare tutti coloro che erano stati cacciati da Padova (cioè ghibellini) e di risarcirli e di consentirgli di partecipare alla vita pubblica. La pace venne annunciata il 12 febbraio, e a Pasqua gli esuli poterono rientrare in città: iniziarono di nuovo così lotte cruente all’interno della città tra le varie famiglie.
Negli anni successivi i rapporti di Cangrande con la Curia papale restarono assai tesi: nel novembre 1318 fu istruito dall’arcivescovo di Bologna il processo ecclesiastico contro di lui, e la scomunica fu confermata nel 1319 e nel 1320. Da parte loro gli ambienti della “corte” scaligera non si peritarono di collaborare con le iniziative più spericolate contro il Papa, come il tentativo visconteo di farlo morire mediante sortilegio nel 1320.
La “scelta di campo” (del resto obbligata) per Federico il Bello compiuta nel 1317 ebbe a sua volta conseguenze importanti, negli anni successivi, sulla condotta politico-militare del signore di Verona. L’atteggiamento di arbitro, “super partes”, assunto nelle questioni della Marca da Federico (in connessione con le esigenze della sua politica nell’area imperiale), portò ad un allentamento della convergenza di interessi che si era realizzata fra Cangrande ed Enrico di Gorizia, in funzione antipadovana e antitrevigiana, inoltre, introdusse la “variabile” carinziano-tirolese nella vita politica della Marca. Di fronte a questa nuova situazione Cangrande aveva in qualche misura le mani legate, non potendo, o volendo, “offendere apertamente colui che rappresentava l’Impero”; tanto più lui, che aveva molto puntato sui collegamenti con le forze militari e signorili di tradizione “ghibellina”.
Nell’inverno 1317-18, Enrico di Gorizia ed Enrico di Carinzia (al quale gli Scaligeri erano legati da una lunga amicizia, fattasi più stretta negli ultimi anni) sono comunque ancora favorevoli a Cangrande; nel dicembre una rapida campagna portò alla conquista di Montagnana, Monselice ed Este; nel febbraio del 1318 il Carinziano e i Castelbarco parteciparono alla presa di Piove di Sacco. Nella pace, che fu allora stabilita e che venne confermata nel marzo, fu deliberato che Cangrande mantenesse il dominio a vita su diversi di questi castelli. La pars ghibellina, inoltre, fu riammessa in città, e i torbidi dei mesi seguenti portarono al conferimento del capitaniato a Giacomo da Carrara (luglio 1318).
Questo trattato segna l’effettivo inizio della dominazione scaligera nel territorio padovano; si intravede qui il primo elemento della dissoluzione della grandezza scaligera, in quanto ha in sé la difficoltà a sapersi armonizzare coi bisogni nazionali dell’economia delle terre acquistate. Tanto più poi per il territorio padovano, perché i movimenti commerciali di questo si estendevano più verso Venezia che verso Verona.
Finita la guerra nella marca trevigiana Cangrande riprese la lotta contro i guelfi ad occidente, in particolare contro Brescia e Cremona. Cremona capitolò nell’aprile 1318 e finì in mano alla fazione ghibellina, grazie all’importante aiuto dei Visconti e degli Scaligeri, e ad agosto, grazie a Cangrande, la signoria della città venne affidata a Passerino Bonacolsi, il quale poco prima aveva perso Modena per una sollevazione guidata dai Mirandola. Cangrande tentò la riconquista della città, ma con Modena si schierò anche Bologna, così decise di lasciare per il momento perdere. Decise di dedicarsi alle riforme interne rivedendo gli statuti comunali, riordinando l’amministrazione e sopprimendo abusi ancora esistenti: i nuovi statuti veronesi erano composti da cinque libri. Il commercio, l’artigianato e le professioni vennero regolate da quattro libri, gli statuta domus mercatorum.
Le corporazioni delle arti e mestieri a Verona erano rappresentate dalla Domus Mercatorum (casa dei mercanti). Essa occupava un ruolo primario nella vita cittadina durante il Comune, mentre durante la signoria scaligera le sue competenze furono concentrate al commercio e alla manifattura, anche se conservava grande influenza. Podestà della casa venne nominato anche Cangrande, con il quale incarico riceveva un onorario annuo di 1.000 piccoli denari veronesi. Egli doveva fare da giudice nelle controversie e cause tra commercianti secondo gli statuti vigenti, inoltre aveva diritto ad eleggere un suo supplente che riceveva un compenso di 10 piccoli denari veronesi. Grazie ai privilegi che comportava la carica lui poté rivedere gli statuti della domus mercatorum, che furono approvati il 18 luglio 1319.
Verona era allora un emporio di merci per via della sua collocazione strategica a metà corso dell’Adige, e grazie ai rapporti di amicizia con Venezia, anche se si erano in parte degradati con l’espansione veronese per via dei timori veneziani. Continuava comunque a sussistere la reciproca difesa degli interessi commerciali, ed i veronesi, come avevano sempre fatto, non negarono la presenza di un console, eletto dal Doge, che aveva il compito di controllare le merci veneziane. Anzi la Serenissima Repubblica aveva conferito importanti cariche ai veronesi ed ampliava i suoi interessi economici nella città: dunque vi fu uno sviluppo economico oltre che territoriale. Anche la scienza e l’arte ricevettero un forte impulso, e, grazie alle importanti figure che Cangrande riusciva a raccogliere di fianco a sé, anche gli studi di giurisprudenza, storia e medicina ebbero notevoli rappresentanti.
Nel settembre del 1318 riprese poi con Uguccione Della Faggiuola una dura campagna nel trevigiano, campagna che lo portò alla conquista dei principali castelli del territorio (eccetto Conegliano), anche attraverso gli accordi con la potente famiglia dei Tempesta. Cangrande riuscì ad avere assicurazioni da Giacomo da Carrara che Padova sarebbe rimasta neutrale nella sua guerra contro Treviso, dove, inoltre, egli stava preparando una congiura. Come si vede anche in questo caso ebbe una notevole influenza sulla città patavina a causa della sua amicizia con la famiglia dei Carraresi, che era diventata la famiglia dominante in città. Egli aveva inoltre informalmente cementato la sua alleanza con i Carraresi alla fine del 1318, fidanzando il suo dodicenne nipote Mastino II con Taddea, figlia di Jacopo Da Carrara. E il 2 ottobre 1318 Uguccione della Faggiola, con 1.000 fanti e 500 cavalieri, mosse verso Vicenza. Per via del mal tempo però tardarono ad arrivare a Treviso, dove le porte furono aperte, fino a quando le sentinelle non se ne accorsero e le chiusero. Uguccione dovette quindi ritirarsi nella vicina Cassano.
Da qui poi conquistò alcune fortezze, mentre Treviso mandava legati in cerca d’aiuto in altre città. Il 6 ottobre Cangrande raggiunse l’amico, mentre Guecellone VII da Camino, in lotta con i trevigiani, gli consegnò le importanti fortezze di Soligo, Vidor, Ceneda, Oderzo e Ponte di Piave: Treviso si trovava quindi isolata, e dovette chiedere la mediazione del doge veneziano. I messi veneziani incontrarono lo scaligero presso Spinea per aprire le trattative di pace. Cangrande esigeva la capitolazione di Treviso ma la richiesta venne respinta, anche perché la città era ben difesa e non voleva perdere la propria indipendenza.
Cangrande, Uguccione, Enrico di Gorizia e Guecellone da Camino attaccarono e devastarono alcuni sobborghi di Treviso. Nonostante ciò la città resisteva e così cominciarono le devastazioni della pianura trevigiana, esclusa Conegliano, che era l’unica città a resistere. Durante un nuovo attacco a Treviso lo stesso Cangrande venne ferito ad una spalla da una freccia. La città era però in serio pericolo, perciò decise ad affidarsi all’Imperatore Federico il Bello, che però accettò di dare loro protezione solo nel caso avessero accettato un vicario imperiale, cosa che fecero. L’Imperatore mandò messi a Cangrande, che però non accettò di ritirarsi, e tornò a Vicenza solo il 2 dicembre 1318, dopo aver razziato il territorio trevigiano. Cangrande non era preoccupato dell’Imperatore, dato che era già impegnato militarmente con Ludovico il Bavaro, mentre i mesi invernali passavano, su quel fronte, relativamente tranquilli.
Nel frattempo Verona partecipava all’assedio di Genova, dove i guelfi avevano preso il potere dopo anni di lotte con i ghibellini, insieme a molte città ghibelline del nord Italia. Una grande operosità dunque, che, se non portò a conquiste territorialmente significative e definitive (anche se il possesso di alcuni castelli trevigiani in seguito si rivelerà importante), accrebbe comunque il prestigio di Cangrande. Dopo che Roberto di Napoli cercò di portare dalla sua parte lo scaligero con grandi concessioni, e questo rifiutò, Matteo Visconti convocò a Soncino per il 16 dicembre 1318 una grande dieta ghibellina, nella quale Cangrande venne nominato Capitano Generale, tanto che nei documenti porta il titolo di “capitaneus et rector unionis et societatis et fidelium Imperii Lombardie”. Questa carica comportava numerosi diritti e doveri. L’assedio di Genova con l’esercito della Lega Ghibellina riprese nell’estate del 1319. Intanto lo scontro tra fazione guelfa e ghibellina diventava sempre più aspro, e i guelfi bresciani portarono alcuni successi. La guerra con Treviso era finita nell’inverno 1318 senza un vero trattato di pace, e con l’inizio del nuovo anno i trevigiani accettarono la nomina di un vicario imperiale in cambio della protezione dell’Imperatore Federico il Bello: il nuovo vicario chiese allo scaligero la restituzione dei castelli conquistati, ma egli non accettò, anche se decise di firmare una tregua momentanea, che sottoscrisse anche Guecellone VII da Camino. Nel frattempo i trevigiani richiesero all’Imperatore delle truppe ausiliarie, anche perché la città era ormai in buona parte con Cangrande.
Anche lo stesso Cangrande era in contatto con l’Imperatore, molto probabilmente per farsi confermare la carica di Capitano Generale della fazione ghibellina: le trattative non ebbero successo, dato che l’Imperatore pretendeva la restituzione dei castelli trevigiani. Fu a causa di questa questione che Cangrande decise di dare il suo supporto all’altro pretendente Imperatore, Ludovico il Bavaro, con il quale era accomunato dal difficile rapporto con il Papa Giovanni XXII, che appoggiava Federico e l’indipendenza trevigiana.
Nella primavera del 1319 fu comminata allo scaligero ed ai suoi alleati (il conte di Gorizia e Guecellone da Camino) una nuova punizione da parte del Papa, che sarebbe diventata definitiva se essi non avessero restituito i territori trevigiani: beffandosi di ciò Cangrande, finito l’armistizio, a marzo riprese la guerra con Treviso. L’esercito veronese arrivò fino ai sobborghi della città, dove vinse una battaglia. Fu in quei momenti che i trevigiani vennero a sapere che l’Imperatore non poteva mandare loro truppe, in quanto era già impegnato contro Ludovico il Bavaro, e che aveva nominato vicario della città il tanto odiato Enrico di Gorizia: a questo punto Treviso era pronta a firmare la pace a qualsiasi condizione.
Spettò ancora a Venezia condurre le trattative di pace: fu concesso il ritorno a Treviso degli esuli, Asolo e Montebelluna furono occupate dalle forze veronesi, che ricevevano tra l’altro un’indennità annua per la loro gestione. Poco prima della firma del contratto si venne a sapere in città che Conegliano era circondata dalle truppe di Guecellone da Camino, e la prospettiva di perdere quella importante città, li obbligò ad accettare il vicariato del conte di Gorizia. Egli, che fino ad un momento prima era alleato di Cangrande, chiese la cessazione delle ostilità in nome di Federico: il principe accettò, ma lasciò le sue truppe in territorio trevigiano. L’obbligata conciliazione con costui indusse Cangrande ad orientarsi nuovamente contro Padova.
Cangrande, finita la guerra con Treviso, cominciò a prepararsi per un nuovo scontro con Padova: per prima cosa fece promettere al conte di Gorizia di rimanere neutrale in caso di guerra tra Padova e Verona (l’accordo venne raggiunto nell’ottobre 1319) ed ottenne anche la neutralità estense mediante la cessione del Polesine (fine di settembre del 1310).
A luglio Cangrande inviò una lettera a Giacomo I da Carrara in cui gli chiede di richiamare i padovani ghibellini esiliati, ed egli rispose che non avrebbe negato il rientro dei cittadini, intuendo che il principe veronese cercava un casus belli per iniziare una nuova guerra.
Nonostante la risposta Cangrande preparò l’esercito formando due grandi reparti, di cui uno affidato al Nogarola, che aveva l’ordine di marciare su Cittadella e Bassano per conquistare le importanti fortezze e distrarre una parte consistente delle forze padovane. L’altro reparto era invece comandato dallo stesso Cangrande e da Uguccione: essi arrivarono, ad inizio agosto, nei sobborghi di Padova. Iniziò il memorabile assedio, che fu descritto e celebrato in versi da Albertino Mussato.
La città patavina non era però ancora pronta alla guerra, dato che il Carrara pensava di poter giungere ad una pace definitiva, mentre, nel frattempo, lo scaligero fortificava un accampamento fuori città e devastava i dintorni di Padova, in modo da tagliare i rifornimenti della città. Parte della popolazione del contado si rifugiò a Padova, causando così carestia e malattie, e Cangrande deviò il Brenta, togliendo così alla città anche l’acqua. Il tentativo di bloccare contemporaneamente i rifornimenti idrici e annonari, prendendo la città per esaurimento, fu condotto con uno spiegamento di mezzi eccezionale. Il grande insediamento fortificato costruito a Bassanello, presso Padova, prese il nome arrogante di “Insula de la Scala”, e si configurò come un'”anticittà”, con un suo podestà, che fu Simone Filippo de Realibus, e strutture amministrative per il controllo (integrale o quasi) del distretto. Gli Estensi si allearono con Cangrande e conquistarono alcuni borghi soggetti a Padova, mentre i padovani cercarono di avere l’appoggio del conte di Gorizia, che diede notizia dei suoi contatti con Padova allo scaligero, che gli promise, così, alcuni paesi in cambio di un suo contingente di truppe. Padova era ormai nel panico, tanto che fece bruciare alcuni villaggi in modo da rallentare l’avanzata delle truppe del conte di Gorizia, mentre, intanto, gli ambasciatori patavini tentavano di venire alla pace con Cangrande: egli voleva in cambio le dimissioni di Giacomo da Carrara, il richiamo in città degli esuli e il congedo dei soldati; con queste condizioni Padova sarebbe caduta nelle mani nemiche senza combattere. Sul piano diplomatico, Cangrande cercò in questo momento decisivo di evitare che Padova, oltre che dalle città guelfe dell’Emilia e della Toscana, fosse soccorsa anche da Enrico di Gorizia e da Federico il Bello. Ma date le dure condizioni, Padova preferì accettare la proposta di Enrico di Gorizia, in nome del quale Ulrico di Waldsee assunse il vicariato della città nel gennaio del 1320, e che prometteva ai padovani la riconquista di Rovigo, Montagnana, Monselice ed altri castelli in cambio della signoria di Padova in nome di Federico d’Austria.
Fingendo la prosecuzione dei rapporti amichevoli con Cangrande, il conte inviò al suo accampamento l’esercito, per cercare di catturare lo stesso Cangrande. Lo scaligero scoprì però l’intrigo, e punì severamente i colpevoli. In autunno Cittadella e Bassano caddero finalmente in mano scaligera; aumentavano però le preoccupazioni di Treviso e Padova, che continuavano le trattative con i veronesi. Il 4 novembre Enrico assunse il governo di Padova, come era stato deciso, così il giorno successivo Cangrande spostò più a nord l’accampamento, in modo da chiudere il collegamento tra Treviso e Padova: il conte aveva però già reclutato un forte esercito composto da Ungari, Tedeschi e Slavi, che vennero fermati però dal periodo invernale, e Padova si trovava così sul punto di crollare per via delle discordie interne e della guerra.
Federico d’Austria inviò un legato per trattare la pace con Cangrande, il quale ottenne che, momentaneamente, il vicariato di Padova sarebbe stato dato allo stesso ambasciatore, mentre le altre questioni sarebbero state trattate nella dieta di Bolzano (aprile 1320), mentre fino ad allora Monselice, Montagnana, Castelbaldo e Bassanello sarebbero rimasti in mano scaligera: fu quindi firmato l’armistizio. Tutte le principali fortezze padovane, esclusa Bassano, erano ormai in mano di Cangrande, e la stessa Padova era allo stremo. L’amico di Cangrande Uguccione della Faggiola si era però ammalato durante l’assedio ed era morto a Vicenza il 1º novembre 1319: venne quindi portato a Verona, dove dopo un solenne funerale venne seppellito.
L’Imperatore non poté partecipare alla dieta di Bolzano e chiese una proroga della tregua, richiesta insoddisfacente per Cangrande, che riprese dunque i preparativi di guerra. Egli rinnovò l’alleanza con Guecellone da Camino, che nel frattempo era diventato signore di Feltre e Belluno. Il 13 marzo 1320 Cangrande era già riuscito ad entrare ad Asolo mentre Guecellone, con l’aiuto di Cecchino della Scala, conquistò Montebelluna (il giorno successivo): i trevigiani erano ormai senza difese, e come contromisura cautelativa decisero di esiliare tutti coloro che si erano macchiati nel tempo di tradimento. Chiesero nuovamente truppe a Federico d’Austria, ma a fine marzo giunse la notizia che Cangrande aveva lasciato il territorio trevigiano per assediare Padova, anche se a nord Guecellone spesso sconfinava nel loro territorio e si dava alla razzia. Federico, date le inquietanti notizie che giungevano da Padova e Treviso, si convinse a dichiarare guerra a Cangrande. Prima, però, volle convocare a Bolzano il Signore veronese per parlare insieme a lui: Cangrande partì a maggio scortato da 600 cavalieri e 1.000 fanti e si accampò temporaneamente a Trento, dove si incontrò con il fratello dell’Imperatore.
Essi informarono l’Imperatore dell’incontro avuto con lo scaligero, ed egli decise di punirlo. A fine maggio 1320 Enrico di Gorizia arrivò a Treviso con 500 cavalieri per prepararsi alla guerra con Verona. Ai primi di giugno i soldati veronesi tentarono l’assalto di Padova, ma, quando erano ormai quasi riusciti ad entrare in città, un soldato si accorse della loro presenza: subito le campane furono fatte battere a martello, l’esercito riuscì velocemente a raggrupparsi ed a respingere l’assalto veronese. Fallito l’assalto Cangrande decise di ridurre alla fame la città tagliando i rifornimenti per la città.
In un momento di assenza di Cangrande i padovani tentarono un assalto esterno contro le truppe veronesi, ma persero la battaglia e dovettero ritirarsi nuovamente in città; in un secondo attacco i padovani riuscirono però a catturare ben quattordici gonfaloni scaligeri. Vista la cocente sconfitta Guecellone da Camino firmò la pace con i padovani, abbandonando così l’alleato veronese. Cangrande dovette abbandonare in fretta Vicenza per raggiungere il luogo della sconfitta, dove fece velocemente riparare le fortificazioni. La città era affamata ma il conte di Gorizia riuscì a raggiungerla con truppe fresche, e poté così attaccare nuovamente i nemici: Cangrande stava già attaccando, così il conte riuscì a sorprendere l’accampamento, quasi sguarnito. Da qui assalì poi Cangrande, che, messosi davanti ad alcune truppe, attaccò il nemico, ma venne ferito alla gamba da una freccia, mentre la maggior parte dell’esercito era in ritiro verso Vicenza (26 agosto 1320). Dovette quindi darsi alla fuga pure lui (riuscì a coprire parte del viaggio grazie ad un contadino con cui aveva cambiato il suo cavallo stremato con uno da tiro).
I padovani riuscirono a riconquistare Bassano e gli altri castelli scaligeri in territorio padovano. Lo scontro si concentrò a Monselice, dove si erano ritirate le truppe veronesi: l’assedio non ebbe esito positivo grazie alla resistenza della guarnigione veronese. Il 27 agosto Cangrande era tornato a Monselice, da dove chiese aiuto agli alleati ghibellini e fece condannare a morte i responsabili del reparto militare che aveva disertato durante la battaglia di Padova. Nell’estate 1320 Cangrande e i suoi seguaci erano stati nuovamente scomunicati per aver conservato il titolo di vicario imperiale, proprio nel momento in cui Padova e Treviso si preparavano ad attaccarlo. Successivamente Papa Giovanni XXII autorizzò a sciogliere dalla scomunica chi avesse rifiutato di obbedirgli: il Papa sperava in questo modo di piegare Cangrande al suo volere. In questa situazione così difficile Cangrande dovette negoziare segretamente la pace con Padova. In breve riuscirono ad accordarsi: dovevano essere scambiati i prigionieri e le fortezze di Monselice, Este, Montagnana e Castelbaldo sarebbero state dello scaligero fino a quando Federico d’Austria non avesse emesso la sua decisione, mentre Cittadella tornava a Padova e Bassano a Vicenza (e quindi a Cangrande), ed Asolo e Montebelluna a Enrico di Gorizia. Il trattato di pace venne firmato alla fine dell’ottobre 1320. Con quella vittoria Treviso e Padova ebbero molti vantaggi ma per contro la loro forza militare era drasticamente diminuita, dato che il territorio vicentino e veronese non era stato nemmeno sfiorato dalla guerra, mentre quello padovano e trevigiano erano devastati. Con questa pace finiva la peggiore esperienza bellica di Cangrande. I padovani quindi, diffidenti del loro salvatore Enrico III di Gorizia e ansiosi di sbarazzarsi del suo esercito di mercenari, accettò i termini della resa, non particolarmente sfavorevoli a Cangrande.
La pressione militare e politica di Cangrande su Padova avvenne contemporaneamente e contestualmente alla fisiologica evoluzione (o degenerazione) dell’istituzione “guelfa” che aveva retto quella città nel cinquantennio postezzeliniano. Pochissime famiglie padovane avevano tradizioni ghibelline di una certa solidità, ai primi del Trecento: i Paltanieri di Monselice, e qualche podestà di carriera (Caligine, Engelfredi). Ma già nel 1312, agli inizi della crisi politica determinata dall’avvento di Enrico VII e dalla perdita di Vicenza, la consorteria facente capo ai da Lozzo, i cui castelli si trovavano sui colli Euganei, si schierò col signore di Verona. In particolare Nicolò da Lozzo svolse allora un ruolo di notevole importanza, contribuendo ad orientare in senso filoscaligero anche Guecellone da Camino, signore di Treviso. Amici dei Cangrande della prima ora furono pure Geboardo e Rainaldo Scrovegni, e Traverso Dalesinannini, e così i Forzaté, da tempo in cattivi rapporti con il ceto al governo. Vi fu dunque un pur modesto nucleo iniziale di sostenitori di Cangrande che si mantenne relativamente stabile nelle complesse vicende degli anni seguenti, e che fece certo parte di quei cosiddetti “gibellini” che nel luglio del 1318 aderirono alla concessione della signoria a Giacomo da Carrara.
Già in questa fase dunque Cangrande sembra essersi limitato a sfruttare i contrasti interni al ceto dirigente padovano. Dopo il fallimento dell’assedio del 1319-20 egli confermò questo atteggiamento più attendista, lasciando che i fuorusciti facessero in pratica il lavoro al posto suo, come dimostrano i disordini e le rivolte di castelli del distretto promosse negli anni 1322-27 da Corrado da Vigonza, Filippo da Peraga, Nicolò da Carrara: avvenimenti che con i torbidi interni del 1325 fecero maturare le condizioni per l’acquisto indolore di Padova, mediante accordo con Marsilio da Carrara. Nel complesso dunque un atteggiamento, da parte di Cangrande, più prudente e pragmatico negli anni successivi al 1320, il che quadra anche con le scelte da lui compiute in altre aree.
La pace lasciava in mano di Cangrande quattro fondamentali fortezze padovane oltre a Bassano, fondamentale poi come base per le operazioni belliche. Il 27 gennaio 1321 Guecellone da Camino venne assassinato dall’omonimo nipote e iniziarono così lotte intestine per la conquista del potere a Feltre. Nel giugno 1321 Cangrande, appoggiandosi ad un esponente locale, Gorgia de Lusia, pretendente all’episcopio, approfittando delle controversie fra Collalto e da Camino, si impadronì di Feltre con l’aiuto di Siccone da Caldonazzo. Cangrande inviò le truppe vicentine nella città, che fu conquistata facilmente, mentre il nuovo Guecellone fuggiva a Belluno, dove però la situazione non era per lui migliore, anche per via dei tentativi di Cangrande di far sollevare la popolazione, stanca del crudele regime. Contemporaneamente, sfruttando le controversie civili scoppiate in Belluno in occasione dell’assassinio di Guecellone da Camino, iniziò la penetrazione nel territorio bellunese, acquisendo le fortezze di Avoscano e Sommariva; poco dopo gli si sottomisero i conti di Cesana, ai quali la giurisdizione fu riconcessa in feudo. Il comandante di Feltre venne mandato con le truppe vicentine e veronesi a Belluno, dove era ormai pronta la congiura contro il Da Camino: il 23 ottobre Belluno venne conquistata senza spargimenti di sangue, se non quello dei guardiani di una porta uccisi dai congiurati; la città in seguito fu affidata a Bernardo Ervari. L’ampliamento del territorio con Feltre, Belluno e Serravalle era un fatto estremamente positivo per Cangrande, poiché aveva una nuova base per le operazioni contro il territorio trevigiano e non irrilevante fu poi l’apporto militare dei nobili bellunesi alle ultime imprese militari dello scaligero.
Nell’autunno 1322 Cangrande rinnovò la sua alleanza con Passerino Bonacolsi nel tentativo di riportare i ghibellini esuli a Reggio Emilia: in questi anni infatti il tratto saliente della politica di Cangrande fu il tempestivo abbandono di un rigido “ghibellinismo” ed un più pragmatico accostarsi alle proposte politiche del legato papale. Promise la sua fedeltà all’Imperatore Ludovico il Bavaro, insieme al quale, dopo la sua vittoria su Federico I d’Asburgo (a cui Cangrande era pur sempre legato) nella battaglia di Mühldorf nel settembre 1322, nel giugno 1323, diede vita ad un’alleanza con i Bonacolsi e gli Estensi di Ferrara in aiuto dei Visconti di Milano. Il 24 aprile 1323 moriva anche Enrico di Gorizia, che tanti problemi aveva dato allo scaligero, che poteva così sperare nella conquista di Castelfranco Veneto.
La prospettiva di una riconciliazione con la Curia sfumò nel drammatico confronto diplomatico dell’aprile-maggio del 1323 a Mantova, quando, durante le trattative fra Bertrando del Poggetto e i rappresentanti scaligeri e bonacolsiani per la remissione della scomunica, apparvero gli inviati del Bavaro che indussero Cangrande e Passerino Bonacolsi a schierarsi con l’Impero ed a portare aiuto a Milano assediata. Nel giugno fu stipulata una lega fra Verona, Mantova, Ferrara e l’Imperatore; nel gennaio del 1324 Cangrande fu presente a Palazzolo sull’Oglio ad un convegno degli “operantes contra Ecclesiam”, e partecipò poi all’assedio di Monza.
Consapevole del fatto che Padova aveva cercato di recuperare alcuni dei suoi ex possedimenti con la forza, Cangrande trascorse la primavera del 1324 a rafforzare le difese, incominciando dalle mura di Verona.
Il 20 marzo 1324 mosse contro la fortezza di Castelfranco Veneto, dopo aver ordito un complotto per impadronirsene, il quale venne però sventato: iniziarono così scorrerie dei soldati lungo il Piave. Queste scaramucce erano una tattica di Cangrande per sgretolare lentamente il territorio nemico. Treviso era ormai circondata, e solo una lingua di terra permetteva un collegamento con il Friuli. Sia a Padova che a Treviso vi erano forti tensioni interne, e solo nell’estate 1324 riuscirono ad allearsi, dopo una carestia, insieme ai tedeschi, sperando così di contrastare Cangrande. Nel 1324 Cangrande evitò abilmente, con forte esborso di denaro, l’attacco dell’esercito tedesco comandato dal duca, riuscendo anche a conquistare alcuni castelli (giugno 1324-gennaio 1325).
Tuttavia l’indisciplinato esercito di mercenari di Enrico di Carinzia e Tirolo, acquisito da Padova, non costituiva una grave minaccia e Cangrande sarebbe stato presto in grado di comperarlo. Con Enrico Cangrande andò nuovamente all’attacco di Padova, nei primi mesi del 1325, ma Ludovico il Bavaro, l’Imperatore eletto, gli ordinò di fare una tregua e di restituire alcuni territori a Padova. Intanto a febbraio morì Chichino, figlio del fratello Bartolomeo della Scala, che gli lasciò un cospicuo patrimonio (salvo delle terre al figlio Giovanni), dato che i rapporti tra Cangrande e Chichino erano molto stretti: Cangrande lo tenne in casa alcuni anni e lo volle a fianco a lui alla firma di importanti alleanze e trattative. Probabilmente Cangrande pensava a lui come suo successore.
In giugno e luglio 1325 Cangrande partecipò di persona alle operazioni della lega ghibellina nel Modenese (assedio e conquista di Sassuolo: luglio) ed inviò truppe veronesi alle battaglie di Altopascio e Zappolino. Dovette però affrettarsi a tornare a Vicenza dove, un grande incendio, aveva distrutto una parte significativa della città. Lì si ammalò e dovette ritirarsi a Verona, dove una voce avversaria dichiarò che era sul punto di morire. A questo suo cugino Federico della Scala, il fu salvatore di Verona nell’attacco padovano del giugno 1314 e podestà di Vicenza, cercò di impadronirsi del potere, ma i mercenari di Cangrande lo fermarono. Quando Cangrande recuperò la salute e le energie esiliò Federico e tutta la sua famiglia dalla città, i suoi beni furono requisiti, il suo castello a Marano di Valpolicella venne raso al suolo e non pochi suoi aderenti e amici furono giustiziati. I due nipoti di Cangrande, Alberto II e Mastino II, figli di Alboino, ormai ventenni, o quasi, furono di fatto designati alla successione. Non compaiono, in questa occasione, gli illegittimi del Della Scala.
Cangrande recuperò abbastanza bene e prese parte alla campagna che si è conclusa in una grande vittoria sui guelfi bolognesi a Monteveglio insieme a Passerino Bonacolsi, nel novembre 1325. Tuttavia sembrò aver allontanato il suo vecchio alleato, forse offeso da Passerino, favorì gli Estensi di Ferrara, con la cui famiglia vi fu un matrimonio. Nonostante la vittoria di Monteveglio e il trionfo di Castruccio Castracani sui guelfi fiorentini ad Altopascio la fazione guelfa era ancora forte, e il Papa e Roberto d’Angiò di Napoli inviarono a Verona, nel luglio 1326, un’ambasciatura, nel tentativo di spezzare la fedeltà di Cangrande al Sacro Romano Impero di Ludovico il Bavaro: tuttavia, all’arrivo del Bavaro a Trento nel gennaio del 1327, Cangrande fu uno dei primi a inviargli degli omaggi ed adottò una linea dura: nelle trattative con Ludovico egli offrì 200.000 fiorini, oltre che “servicium et amorem”, per il vicariato di Padova, minacciando altrimenti di accordarsi con la Chiesa. Al rifiuto e alla successiva alleanza in funzione antiscaligera fra Ludovico ed Enrico di Carinzia pose riparo la mediazione di Obizzo d’Este. Al suo rientro in Trento Cangrande si presentò con un imponente esercito; conseguì la conferma del vicariato su Verona e Vicenza, divenne vicario imperiale di Feltre, Monselice, Bassano del Grappa e Conegliano ed ottenne una tregua biennale con Enrico di Carinzia. Si ripeteva così in un certo senso la situazione venutasi a creare nei rapporti con Federico il Bello, con l’adesione all’Impero a condizionare e limitare la libertà d’azione dello scaligero.
Il 31 maggio 1327 Ludovico venne incoronato Imperatore a Milano: Cangrande partecipò con ostentata abbondanza, con un corteo di più di mille cavalieri. Il suo obiettivo era quello di impressionare l’Imperatore con la sua superiorità rispetto agli altri principi lombardi, ma il risultato più forte fu quello di suscitare gelosia e sospetto tra i Visconti. Tornato a Verona nel giugno 1327 si coinvolse nella revisione degli statuti cittadini.
Fra l’estate del 1327 e la metà del 1328, Cangrande maturò scelte decisive per la storia scaligera e veronese, in particolare l’uccisione – col mezzo di un contingente militare guidato da Guglielmo da Castelbarco – del suo vecchio alleato Passerino Bonacolsi, vicario imperiale in Mantova, con Luigi Gonzaga, esponente di una famiglia in notevole ascesa patrimoniale e politica, che fu insediato come capitano della città il 16 agosto 1328. Cangrande in questa occasione fu brutalmente pragmatico, ma non si sa se sostenne la fazione vincente (la forza dei Bonacolsi era in declino tanto che persero Modena nel giugno 1327) o se l’allontanamento dal suo vecchio alleato aveva cause più profonde. Le segrete mire dello Scaligero, dopo la nomina nel 1329 di Ludovico I Gonzaga a vicario imperiale di Mantova dall’Imperatore Ludovico il Bavaro, erano quelle di acquisire il dominio della città virgiliana.
Poco più tardi giungeva ad una svolta anche la lunga vicenda dei rapporti fra lo Scaligero e Padova, dopo 16 anni di intermittente ma brutale conflitto: le forze veronesi sotto Mastino II della Scala, il nipote di Cangrande, alleate con i padovani fuorusciti, come Corrado da Vigonza, Paolo Dente e Nicolò da Carrara, in discordia col cugino Marsilio, capitano della città, si accamparono non lontano da Este, divenendo così una minaccia per la città. Di fronte a queste difficoltà e all’inconsistenza degli aiuti tedeschi, Marsilio si convinse a rinunciare alla città e a trattare direttamente con Cangrande, il quale scaricò Nicolò da Carrara e rinsaldò l’accordo con Marsilio mediante le nozze fra Mastino II e Taddea, una nipote del Carrarese, che furono celebrate in una curia cavalleresca memoranda, di cui le cronache parlarono ancora a distanza di decenni; in tale occasione Cangrande creò ben trentotto cavalieri. Marsilio preferì fare un accordo con Cangrande per mantenere alcuni poteri, piuttosto che rischiare di perdere con la guerra o cercando accordarsi con i padovani esiliati. Marsilio fu fatto capitano generale della città, mentre Cangrande cavalcò trionfalmente dentro Padova il 10 settembre 1328, e venne ricevuto con entusiasmo dalla popolazione, che sperava nell’arrivo di un periodo di stabilità. Vennero posti due fedelissimi quali Bernardo Ervari e Spinetta Malaspina rispettivamente come podestà e “capitaneus forensis militie”. Padova era dunque sì inserita nello Stato scaligero, ma sulla base di un collegamento verticistico con una famiglia eminente del ceto signorile locale, il cui prestigio veniva anzi rafforzato, quale era appunto quella dei da Carrara: ciò, in coerenza con l’azione politica svolta per un ventennio da Cangrande, azione tutta tesa ad usare abilmente le fazioni cittadine. Questo fu il più significativo trionfo di Cangrande, era visto come un enorme contributo per la causa ghibellina, che era stata indebolita dalla morte di Castruccio Castracani anni prima. Anche le città sotto il controllo guelfi, come Firenze, scrisse per congratularsi con Cangrande e, nel marzo 1329, fu fatto cittadino di Venezia, un onore concesso raramente.
Le scelte compiute da Cangrande dopo la conquista di Padova appaiono ispirate perciò ad una estrema moderazione: alla presentazione che gli venne fatta del “vexillum populi”, Cangrande lo restituì immediatamente a Marsilio, creandolo vicario della città fra il tripudio generale. Vennero rispettate altresì le consuetudini in materia di mercati e di fiere.
Riguardo al governo di Cangrande su Padova nel 1328-29, si evidenzia suo “intuito” politico nel compiere le scelte predette, giacché conquistata Padova egli si troverà di fronte al difficile compito di dover reggere le sorti di un territorio che ha interessi opposti ai suoi, essendo Padova, dal punto di vista commerciale ed economico, legata a Venezia. Infatti nel biennio 1328-29 Cangrande pose attenzione all’evitare di inasprire l’inevitabile preponderanza che Venezia, con il suo commercio si era assicurata nel territorio padovano. Con la città lagunare Cangrande aveva del resto sempre mantenuto, e mantenne allora, buoni rapporti, come dimostrano le deliberazioni dei Consigli veneziani – salvo qualche avvertimento per Treviso – e come conferma la concessione a Cangrande della cittadinanza de intus e de extra (marzo 1329).
La città di Verona era affidata in questi anni alle podesterie di fidatissimi milites, come Federico Della Scala, Francesco Della Mirandola, e poi, per oltre un quindicennio (1314-30), ad Ugolino da Sesso. L’autorità del dominus, di cui non sono ovviamente rare assenze anche prolungate, si fa comunque sentire in modo incisivo sull’amministrazione cittadina: già dal 1323 almeno è attestata l’esistenza di un liber ambaxatarum (del quale non si hanno tracce con i predecessori), il che prova l’esistenza di una codificata prassi di emanazione di ordini immediatamente esecutivi (ambaxate) diretti al podestà, ai funzionari della Domus mercatorum. Della Domus Cangrande conserva la podesteria a vita, segno esteriore ma non insignificante del ricercato collegamento con il ceto mercantile e artigianale cittadino, secondo la tradizione scaligera. Tra i provvedimenti più importanti presi nella amministrazione cittadina va ricordato appunto il rifacimento degli statuti della Domus mercatorum e delle arti, realizzato nel 1319 da una commissione di dieci sapientes, nominati su mandato del Della Scala. Più tardo di un decennio (1328) è il rifacimento degli statuti comunali, in sostituzione di quelli risistemati nell’ottavo decennio del Duecento: in essi la preminenza politica del vicarius, come viene costantemente designato Cangrande, è sancita e codificata in modo definitivo.
Ricordiamo ancora, fra gli altri, due aspetti importanti della vita cittadina in grado di influenzare l’attività politico-amministrativa del Della Scala. Il primo, noto nelle sue linee generali, è il buon rapporto con le istituzioni ecclesiastiche urbane (nel senso che esse sono soggette al controllo fermo del potere signorile, anche quando sedi abbaziali o altre non siano occupate da membri della famiglia): la scomunica, ad esempio, non influenza affatto i rapporti fra Cangrande ed un vescovo come Tebaldo (1298-1331) che pure non fu privo di una sua personalità. Il secondo, molto meno noto, riguarda la politica fiscale adottata in ambito cittadino, e si ricollega all’accennato problema della sperequazione fra l’esiguità territoriale dello Stato scaligero al tempo di Cangrande, il gettito fiscale che ne poteva derivare e la pratica ampiamente attestata di larghissime spese adottata da Cangrande, in pace e in guerra.
Nella primavera del 1329 Cangrande riuscì ad ottenere il titolo di vicario imperiale di Mantova dall’Imperatore, intendendo così muovere contro il potere dei Gonzaga nella città. Quei piani furono per il momento fermati da un cambiamento di governo a Treviso, priva ormai di appoggi che non fossero le mal sopportate guarnigioni di Enrico di Carinzia, e travagliata dai contrasti interni alla sua classe dirigente. Già nel 1327 Cangrande aveva completato l’accerchiamento prendendo Ceneda e trovò numerosi esuli disposti ad aiutarlo a conquistare la città, in cambio del loro ripristino in città. Crearono quindi dei tumulti nella città, così il 2 luglio 1329 Cangrande lasciò Verona per l’ultima volta e, nel giro di pochi giorni, con un grande esercito mise l’assedio a Treviso.
A Treviso Cangrande sembra aver progettato di applicare lo stesso schema adottato a Padova, appoggiandosi cioè ad una cospicua famiglia signorile, quella dei Tempesta, con la quale aveva una lunga consuetudine di rapporti (peraltro alterni). L’assenza di rifornimenti e l’assenza di aiuto esterno portò il capo della città Guecello Tempesta ad arrendersi, contando sulla nota generosità di Cangrande verso chi si sottometteva: a buona ragione visto che gli vennero conferiti, una volta conquistata la città, il capitaniato militare in Treviso, cospicui diritti daziari e la giurisdizione su Noale. Peraltro anche i Camposampiero, i Bonaparte e Gerardo da Camino conservarono i loro diritti, rendendo evidente la centralità del rapporto con la nobiltà locale nell’istaurazione del dominio scaligero in Treviso. Nella difficile dialettica fra esigenze militari (compatibili con l’appoggio della nobiltà) e fiscali (soddisfacibili solo con l’apporto delle strutture amministrative del Comune urbano) della signoria veronese si eserciterà nel decennio successivo, in Treviso, Pietro Dal Verme, nominato podestà della città da Cangrande.
La conquista di Treviso avvenne quindi senza particolari spargimenti di sangue, anche perché lo scaligero aveva predisposto un esercito imponente: Cangrande diede il comando generale dell’esercito a Marsilio da Carrara (acerrimo nemico di Guecellone Tempesta), anche se mantenne parzialmente autonomi il contingente vicentino, comandato dal fidato Nogarola, e i contingenti veronesi, padovani e bellunesi-feltrini. Da parte trevigiana prevalse l’orientamento all’assoggettamento, anche se vi fu qualche scaramuccia, come testimoniano i prigionieri presi dai veronesi.
Treviso fu conquistata il 17 luglio 1329. La mattina del 18 luglio Cangrande poté entrare a Treviso su un cavallo bianco e con un bastone in pugno: era il coronamento della sua lunga lotta per soggiogare la Marca Trevigiana. Egli sostò quindi al vescovado, dove rimase per tre giorni mentre era malato. In uno dei pochi provvedimenti che emanò durante la malattia viene esplicitato il rispetto dell’ideologia guelfa di Treviso: questa scelta può essere interpretata come un atto di estrema saggezza per riconciliare la città veronese con quella trevigiana, oppure come frutto di una trattativa durante la sua agonia. A seguito della fulminea malattia, Cangrande morì il 22 luglio 1329.
Per i contemporanei fu una malattia intestinale la causa della morte di Cangrande, almeno secondo la maggior parte delle fonti. Alcune fonti menzionano l’eventualità di un avvelenamento, ciò non stupisce dato che il Signore è morto relativamente giovane e in un momento in cui era in buona salute, tanto che Niccolò de’ Rossi, poeta guelfo e certamente non amico di Cangrande, scrive:
(VEC) « El sarà re d’Italia, enançi un anno »
(IT) « Egli sarà re d’Italia, entro un anno. »
Questa ultima tesi fu abbastanza trascurata a suo tempo, ma nel febbraio 2004, il corpo di Cangrande fu rimosso dal suo sarcofago per essere sottoposto a studi e test scientifici, con lo scopo principale di trovare le cause della sua morte: fin dall’apertura si è potuto constatare che il corpo di Cangrande è incorso in un processo di mummificazione naturale, come nella precedente ispezione del 1921, durante la quale si capì tra l’altro che la tomba doveva essere già stata aperta in precedenza. Dallo studio è emerso che la vera causa della morte è stato un avvelenamento dovuto ad una quantità letale di digitalici, principi attivi estratti da una pianta officinale, la Digitalis purpurea, i cui principi attivi (digossina e digitossina) sono attualmente utilizzati per la cura di alcune malattie del cuore, ma che, in dosi eccessive, possono provocarne l’arresto. Alcune prove fanno pensare ad un avvelenamento non accidentale, probabilmente avvenuto con il pretesto di curare il malanno che lo aveva colpito bevendo le fredde acque della sorgente prima del suo arrivo a Treviso (infatti un medico di Cangrande venne fatto impiccare dal successore Mastino II).
Il giorno successivo Verona era già stata avvertita della morte del suo Signore, e la procedura del conferimento dei poteri ebbe inizio: Alberto II e Mastino II seguirono le tre tappe, che consistevano nelle delibere del collegio degli anziani e gastaldioni, del consiglio del Comune, e nella rettifica dell’arengo.
La salma di Cangrande, trasportata da un carro con quattro cavalli, raggiunse Verona nella tarda serata del 23 luglio, ma, dato che le porte erano chiuse, il cadavere fu ospitato per la notte nella chiesa dell’ospedale di Sant’Apollinare alla Peccana, fuori Verona. Presso Sant’Apollinare il corpo di Cangrande apparve già con i primi segnali di putrefazione, mentre il ventre si presentava gonfio: il corpo venne quindi risanato con balsami ed essenze, mentre i sarti confezionarono una bara coperta di seta. Il corpo venne vestito con porzioni di vestito, così da restituire l’immagine di un Signore, con la tunica aperta e con un manto, quindi coprirono il corpo con un lenzuolo funebre rigato. Le vesti che indossava il principe ricordavano i colori araldici del Comune e degli Scaligeri, oro ed azzurro, e rosso e bianco. In pratica l’abito non era indossato, ma ricopriva il corpo. Inoltre sono state inserite altre stoffe non coese al corpo: un copricapo in seta, calzari in panno rosso, un cuscino a righe d’argento, e tre teli quadrangolari (la presenza di numerosi tessuti di origine orientale nel sarcofago può essere spiegato dal loro utilizzo in momenti diversi: dopo il funerale il corpo fu portato nella posizione definitiva dopo diverso tempo).
La mattina del 24 luglio la salma entrò a Verona da Porta Vescovo e fu avviato alla sepoltura: il cimiero e la spada sguainata erano esibiti su di un cavallo, la corazza e la barbuta su di un altro, mentre altri dieci cavalli portavano scudi rovesciati e lo stemma della scala: i dodici cavalli erano montati da cavalieri in vesti brune. La funzione religiosa si tenne presso la chiesa di Santa Maria Antica.
Secondo le fonti antiche Cangrande fu inizialmente sepolto presso il complesso delle arche scaligere, dove, come prima tomba, venne utilizzata temporaneamente una di quelle dei predecessori. L’arca commissionata inizialmente per Cangrande divenne il sarcofago di Alberto I della Scala, come indica la presenza su di esso dell’aquila imperiale. La tomba definitiva venne realizzata in qualche mese da due diverse maestranze: essa venne posizionata sopra l’entrata laterale della chiesa; in tale luogo, verso il 1335, Mastino II fece erigere la celebre statua equestre di Cangrande.
«Cangrande non appartiene a quella schiera di principi a cui fu concesso di governare in tranquillità: così quando ottenne dei risultati apprezzabili per via diplomatica, ciò fu possibile solo grazie ad una posizione di forza guadagnata con pesanti sacrifici. Il periodo storico che rappresenta il tramonto del Medioevo richiedeva soprattutto talento militare, cosicché in un’unica persona dovevano coesistere l’abile stratega e l’accorto statista. Malgrado lo scompiglio nei partiti e la confusione che regnava nei piccoli stati italiani, Cangrande fu capace di realizzare importanti obiettivi politici attraverso i quali si prefiggeva di attuare un’ordinata riforma statale; in questo senso va considerata la conquista della Marca Trevigiana e ciò spiega il motivo per cui tutte le sue forze furono immancabilmente volte all’attuazione di tale fine.» (Tratto da Cangrande I della Scala di Hans Spangenberg, trad. di Maurizio Brunelli e Alessandro Volpi)
Cangrande, come si è detto, sposò Giovanna di Svevia, figlia di Corrado di Antiochia, che a sua volta era nipote dell’imperatore Federico II. L’unione coniugale durò tutta la vita ma non portò alla nascita di eredi legittimi, quindi Cangrande non poté lasciare una continuità diretta al casato e i titoli passarono ai nipoti Alberto II e Mastino II della Scala, figli di suo fratello Alboino.
Cangrande ebbe invece ben otto figli illegittimi: quattro figlie (Margherita, figlia di Bianca delle Passioni, famiglia in età comunale autorevole; Franceschina, monaca in San Michele di Campagna; Giustina e Lucia Cagnola) e quattro figli, tre dei quali noti perché implicati in congiure familiari vere o presunte: Ziliberto che fu canonico di Verona dal 1323 e Bartolomeo: imprigionati nel 1329 da Mastino II; Alboino, morto più tardi, nel 1354, in occasione della congiura di Fregnano contro Cangrande II; infine Francesco.
Con Cangrande, Verona, già centro politico di grande importanza, divenne progressivamente notevole centro culturale grazie alla sfarzosa corte che si sviluppò attorno al signore scaligero, e che anticipò, purtroppo senza svilupparsi appieno, il fasto delle signorie che si svilupparono di lì a poco nella penisola: Firenze, Mantova, Milano. Egli infatti fu un noto patrono delle arti e dell’apprendimento in generale: poeti, pittori, storici e grammatici tutti hanno trovato una buona accoglienza a Verona durante il suo regno, e il suo interesse personale per l’eloquenza e il dibattito si riflette dalla sua aggiunta di una cattedra di retorica alle sei cattedre già previste dagli statuti veronesi. Testimonianze della benevolenza che egli riservava ad artisti e poeti si possono ritrovare negli “Elogia virorum bellica virtute illustrium” di Paolo Giovio. A Cangrande ed all’ambiente liberale del Palazzo fa riferimento ancora Boccaccio nella settima novella della prima giornata del “Decameron” e Gidino da Sommacampagna nelle sue “Ballata minima” e “Ballata comune minore”. Tra gli artisti che hanno beneficiato della corte Scaligera ricordiamo Francesco Petrarca, Immanuel Romano (Manoello Giudeo), Guglielmo da Pastrengo e Rinaldo Cavalchino. Il suo patrocinio del poeta Dante Alighieri è senza dubbio la sua principale fonte di fama: dopo la breve visita sotto la signoria di Bartolomeo, quando Cangrande era poco più che un bambino, Dante fu di nuovo a Verona attorno al 1312, questa volta come esule. La permanenza del sommo poeta questa volta fu assai più lunga e si protrasse almeno fino al 1318. Molto si è discusso sui rapporti intercorsi tra Dante e Cangrande, e sicuramente dovette svilupparsi, se non proprio un’amicizia, sicuramente un grande rispetto reciproco. Cangrande, nonostante il mestiere d’arme a cui si era dedicato con passione fin da bambino, era persona acculturata e amante dell’arte e seppe sicuramente apprezzare gli scritti di Dante che dedicò al signore veronese l’ultima cantica della Commedia, il Paradiso. Dante vedeva forse in Cangrande quel signore ideale che avrebbe forse potuto pacificare l’ormai indomita e selvaggia Italia. Anche Giotto che proprio in quegli anni lavorava a Padova alla Cappella degli Scrovegni e presso il Santo, fu a Verona e, stando a quanto racconta il Vasari, dipinse proprio per i Palazzi Scaligeri alcuni affreschi e un ritratto dello stesso Cangrande. Purtroppo nulla rimane dell’opera giottesca a Verona, irrimediabilmente perduta nei numerosi rimaneggiamenti e rifacimenti che i Palazzi Scaligeri hanno subito nel corso dei secoli.
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