Nel passaggio dalla Tarda Antichità al Medioevo c’è un crollo delle istituzioni ufficiali per lo spettacolo, collegando spettacoli teatrali e momenti di svago come guasto all’ordine pubblico sull’ondata dei predicatori degli Ordini mendicanti che cercava di comprimerlo.
Forme di intrattenimento minore, vengono quasi messe al bando dai governi infarciti di cattolicesimo. Nelle feste popolari della Tarda Antichità (Saturnali, prima, Festa dei Folli dopo) la società si riuniva in un’unica festa ed era usanza indossare maschere, travestirsi e interpretare ruoli diversi, invertire le gerarchie sociali, prendere in giro e deridere, bere vino; il ribaltamento di ruoli e il travestimento costituivano l’asse portante. Il Cristianesimo condanna il riso e cosi condanna e congeda il mimo, il buffone, l’attore comico, il teatro, il gesticolatore, e il commediante, insomma il “giullare”.
Il nuovo eroe della società cristiana è l’uomo che non ride: nelle regole monastiche del V secolo il riso è descritto come il modo più osceno di rompere il silenzio, virtù essenziale del monaco. In seguito il riso è contrario all’umiltà, proprio perché comporta in sé una forma di giudizio sulla cosa di cui si ride. La rivoluzione definitiva arriva con Francesco d’Assisi, che considera la giocondità e la letizia addirittura un rimedio contro le tentazioni diaboliche, subordinate – tuttavia – all’origine religiosa. A testimoniare come l’umorismo sia stato effettivamente ereditato dall’ordine francescano, ci sono molti esempi illustri (a cominciare da Bernardino da Siena, autentico showman, in grado di catturare l’attenzione dei fedeli anche con la comicità) perfettamente sintetizzati da un passaggio de “Il Nome della Rosa” di Umberto Eco, che mette in scena il conflitto tra la visione monastica (di Jorge de Burgos) e quella francescana (del protagonista, Guglielmo da Baskerville): “Tu sei peggio del diavolo, minorita”, disse allora Jorge. “Sei un giullare, come il santo che vi ha partoriti. Sei come il tuo Francesco che de toto corpore fecerat linguam, che teneva sermoni dando spettacoli come saltimbanchi, che confondeva l’avaro mettendogli in mano monete d’oro, che umiliava la devozione delle suore recitando il Miserere invece della predica, che mendicava in francese, e imitava con un pezzo di legno i movimenti di chi suona il violino, che si travestiva da vagabondo per confondere i frati ghiottoni, che si gettava nudo sulla neve, parlava con gli animali e le erbe, trasformava lo stesso mistero della natività in spettacolo di villaggio, invocava l’agnello di Bethlehem imitando il belato della pecora”.
La questione fondamentale è: il giullare medievale è un diretto discendente del mimo o pantomimo romano o una creazione tipicamente medievale, con caratteristiche proprie che non hanno nulla a che vedere con la tradizione precedente? Il pensiero che hanno assunto Edmond Faral e Louis Petit de Julleville promuove una linea evolutiva continua tra i mimi dell’antichità e quelli medievali, nonostante, invece, vi sia una frattura totale nel genere teatrale.
Ma vi è chi ha tentato di riconoscere una tradizione diversa di questi giullari medievali, ed è il caso di Edmund Kerchever Chambers, che ha intravisto negli intrattenitori della cultura barbarica una possibile origine. Lo studioso, sostanzialmente, ammette due possibili eredità e considera i menestrelli o trovatori discendenti dagli skôps anglosassoni, compositori di versi, e i buffoni o i semplici performer discendenti dai mimi romani. In sostanza, skôps e mimi avrebbero finito per influenzarsi a vicenda, dando vita a una figura totalmente originale.
Dopo il Mille la città vide la sua rinascita, con una nuova corrente mercantile che la fece oggetto di scambio e produzione. E proprio per agevolare il lavoro di questi mercanti, la fiera iniziò ad assumere grande importanza. Inizialmente, esse erano poste al di fuori la cinta muraria, ma successivamente vennero trasferite all’interno, dove vi era un’altra importante occasione di ritrovo per la società, il mercato, «punto di raccolta e di smistamento di mercanzie».
Nel Medioevo fu la piazza il vero centro della vita cittadina, l’intero spazio aperto che si apriva attorno alle chiese e alle cattedrali, inizialmente dalle forme irregolari.
Ne abbiamo esempi bellissimi, come Piazza del Campo a Siena. Questi furono i grandi spazi che accolsero la ludicità medievale, lo spazio degli artisti, dei performer, dei saltimbanchi di orsi, di presentazione di nuovi animali esotici. Come ha fatto notare Georges Minois, non dobbiamo pensare che tutto ciò fosse presente sempre, anzi. Vi erano delle occasioni particolari nella quale i giullari potevano dare sfogo alla loro creatività, ovvero durante le feste popolari collettive.
L’Allegoria del Buon Governo (nell’immagine qui a fianco) di Ambrogio Lorenzetti nel Palazzo Pubblico di Siena è l’esempio più eclatante, fornendoci un ottimo squarcio della vita a quel tempo. L’affresco mostra la città ben governata, confermata dagli uomini che compiono vari mestieri: quelli in alto a destra stanno sistemando un tetto, i mercanti stanno scambiando le loro merci, la campagna fuori le mura è ben coltivata. Al centro della composizione, tra le mura cittadine e la realtà caotica di un giorno come un altro, un gruppo di donne danzano prese per mano in cerchio, il classico girotondo a tempo di tamburello a sonagli, che la donna con il vestito nero continua a fare oscillare.
Un altro esempio di questa ludicità in spazi aperti mostra nella Torre Aquila, al Castello del Buonconsiglio di Trento nel Ciclo dei Mesi (qui a fianco). L’affresco relativo al mese di Gennaio campagna circostante alle mura di un castello, divisa da questo da un piccolo fossato, ma allo stesso tempo collegata da un ponte levatoio. La campagna è sommersa dalla neve, ma le attività non si fermano, come ci mostrano i due personaggi incappucciati che tengono in mano un lungo bastone ciascuno. Entrambi sono accompagnati da due cani, probabilmente sono dei cacciatori. In primo piano vediamo un momento ludico: sei persone, un uomo e due donne a sinistra e tre uomini a destra, stanno giocando a lanciarsi palle di neve.
Claudia Villa, studiosa dei passatempi di corte, ha messo in evidenzia come le cronache non parlino troppo dell’argomento, probabilmente perché i reali volevano far passare la loro immagine come colta, attenta ad imparare a leggere e a scrivere, non interessata allo spettacolo dei giullari. In realtà, le corti furono ricchissime di questi, basti pensare al Romanzo di Flamenca che ne elenca ben millecinquecento, anzi, fu proprio nelle corti che i giullari, a partire dal XIV secolo, presero una fissa dimora, e la figura del buffone iniziò il suo grande successo, tanto da diventare stretto fedele del sovrano. Matrimoni, banchetti e cerimonie ufficiali, che erano tutte occasioni alla quale la comicità e la ludicità dovevano prendere parte, presero il nome generico di «corti bandite». Accadeva spesso che i giullari si spostassero di corte in corte raccomandati dagli stessi sovrani, o che questi se li prestassero tra loro temporaneamente. Giacomo II di Aragona, Re di Sicilia, fece emanare una legislazione che prevedeva a corte minimo cinque giullari: «Nei domini del principe possono liberamente stare, secondo l’antica tradizione, mimi e giullari. […] Per tale ragione vogliamo e ordiniamo che nella nostra corte ve ne debbano essere cinque».
Roman de la Rose, mostra un giardino di corte fiorito, più precisamente un Hortus conclusus (a lato), nella quale prendono posto varie esibizioni: un acrobata, un suonatore di arpa, uno di ghiterna, un girotondo.
D’altra parte, il riso dei sovrani e la derisione da parte di un giullare di un esponente politico avevano degli scopi ben precisi, ovvero trarne dei vantaggi a fini politici e distruggere la carriera a qualcun altro. Questi furono aneddoti ben utilizzati. Fu proprio in queste sedi che lo spettacolo dei giullari raggiunse una maggiore dignità, al contrario di coloro che continuarono a lavorare sulla strada; una dignità, comunque, passeggera, dal momento che le esibizioni di corte non erano poi così qualitativamente migliori rispetto alle altre, ma ciò che faceva la differenza era la ricompensa ricevuta. A questo scenario vanno aggiunti tutti gli intrattenitori che presero parte alle feste in case private. Lo stesso Alcuino di York nel 791 ospitò alcuni giullari in casa propria, come si può leggere in una sua lettera.
COME VESTIVA IL GIULLARE
Sandra Pietrini fa risalire la comparsa del costume nell’iconografia soltanto nel XIV secolo, sostenendo che l’abbigliamento precedente non aveva nulla di troppo caratterizzante. Prima di descrivere nel dettaglio l’abito del giullare è importante tenere in conto quale sia il contesto culturale in cui ci si muove, in particolare verso l’abbigliamento e il modo di presentare se stessi in pubblico.
La possibilità di vestirsi come più fosse gradito non era contemplata nel Medioevo, dove spesso si trovano disposizioni ufficiali, su come sia ammesso e accettabile vestirsi in pubblico. In particolare sono interessanti le disposizioni relative alle prostitute, dalle quali tenevano a distinguersi le donne di buona famiglia, in quanto a loro era spesso proibito di indossare veli sul capo e talvolta erano obbligate ad indossare colori specifici, come il giallo. La distinzione sociale avveniva per grande parte proprio attraverso la differenza nell’abbigliamento. In questo contesto di così alta disciplina del vestiario era automatico che nei momenti più importanti della spettacolarità secolare, pagana, popolare, la prima nota di cambiamento fosse proprio nei costumi che rappresentavano in primis il sovvertimento delle usanze accettate e imposte dalle autorità.
Questa licenziosità in particolare rappresenta un’evidente contaminazione dei modi pagani di fare spettacolo con le ritualità della chiesa e evidenziano quanto la funzione del giullare, nonostante spesso vista come l’espressività di un reietto, fosse però comune e diffusa. Il giullare infatti faceva la parte del soggetto controcorrente, la sua parola era quella del pazzo, dell’anormale: un rovesciamento del senso comune.
L’abito del giullare doveva perciò essere multiforme e colorato, tale da essere ben riconosciuto dalla folla: diveniva una sorta di veste ghettizzante, al pari di quella indossata dalle prostitute, oppure dai lebbrosi. Proprio come queste altre figure marginali, il giullare doveva essere preannunciato anche acusticamente: ecco quindi la comparsa di campanacci e strumenti a fiato, che da una parte egli usava per attirare il pubblico delle piazze alle sue manifestazioni, ma d’altra parte lo connotavano già da lontano come estraneo, riconoscibile in quanto portava una veste bicolore, gialla, rossa o verde, che testimoniava la sua situazione infamante, ed anche evitabile dai buoni cristiani. La policromia dell’abito e l’utilizzo delle bande verticali alternate, tipiche del vestito del giullare, sono spesso considerate un simbolo diabolico, una manifestazione di disordine, esternazione della follia e della anormalità di questo strano personaggio, che impersona quindi una delle tante forme del “folle” nella cultura europea, in opposizione alla monocromia degli abiti dei cittadini per bene. Il costume quindi rappresenta il primo carattere distintivo di questo artista, intrattenitore, folle e divertente. L’abito colorato di due soli colori, diviso nel senso dell’altezza, campanelli appesi al cappello e oggetti strani alla cinta, l’utilizzo di strumenti musicali ne fanno un personaggio stravagante al punto da poter essere giustificato solo in periodi speciali come le feste e comunque tollerato solo a patto di considerarlo un folle e buffone, che fa qualcosa per mangiare.
Ma ciò che solitamente caratterizzò il giullare fu il cappello, una sorta di cappuccio morbido, che tendeva a ridicolizzarli. Ne vediamo un buon esempio dove un giullare indossa una veste tinta unita e il cappuccio, mentre con la mano destra regge il bauble, il bastone che all’estremità è caratterizzato da un molle sacchetto, probabilmente riempito di sassolini per fare rumore.
Con la scomparsa dei teatri classici, giullari, mimi e attori furono costretti a vagare, spostarsi continuamente di zona in zona, adattandosi continuamente al cambiamento, ed è proprio questo che fece del giullare la figura più originale del Medioevo. Questo personaggio, che di fisso forse non aveva nemmeno il nome d’arte, cambiò quotidianamente il suo spazio di lavoro, non ebbe un ruolo riconoscibile né all’interno della società, né nell’economia, nè nella gerarchia di valori. Di conseguenza, il passaggio da un luogo ad un altro presupponeva una certa preparazione ed elasticità mentale, dal momento che lo spettacolo poteva cambiare di volta in volta a seconda del tipo di pubblico. Il giullare doveva essere pronto alle varianti, pronto al cambiamento di repertorio, pronto all’improvvisazione, pronto a sfoggiare un lessico sempre nuovo, a seconda che lo spettacolo si svolgesse in piazza, a corte, davanti ad una chiesa o ad un palazzo. Per questo motivo, il copione scritto diventò superfluo e inutile.
Il nomadismo, quindi, era cosa comune a tutti gli intrattenitori. Probabilmente, i giullari non portavano in giro il loro spettacolo da soli, ma in piccoli gruppi o compagnie, sostanzialmente a carattere famigliare. Data la condizione sociale bassa di questi individui, si può pensare che tali arti e mestieri venissero tramandati di generazione in generazione. La compagnia era, comunque, fondamentale, dal momento che gli spettacoli richiedevano spesso e volentieri un accompagnamento musicale. Nel 1373, durante la guerra tra Venezia e Padova, i giullari andavano in giro per Venezia a raccontare ciò che stava accadendo e le eventuali novità. Lo stesso Re Riccardo Cuor di Leone si accorse di come essi fossero degli ottimi divulgatori, tanto che si fece spedire dalla Francia dei giullari che andassero in giro a raccontare le sue buone imprese. Amati e disprezzati, ricercati e condannati, i giullari si resero utili a tali funzioni e portarono il divertimento in città, in strada, in piazza, a corte, a volte anche presso le autorità ecclesiastiche. La loro fama però dipese sempre dalla sorte, dalla fortuna di trovare o meno un pubblico tollerante.
FONTI:
- Pietrini Sandra, I giullari nell’immaginario medievale, 2011
- Apollonio Mario, Storia della Commedia dell’Arte, Firenze, 1982
- Allegri Luigi, Teatro e Spettacolo nel Medioevo, 1988
- Eco Umberto, Il Nome della Rosa, 1980
- Stegagno Picchio Luciana, “Lo spettacolo dei giullari” in Il contributo dei giullari alla drammaturgia italiana delle origini, Viterbo 17-19 giugno 1977
- Wikipedia
a cura della Dott.ssa Annalaura Fornalè