La società medievale era animata dall’amore per il gioco e per la festa e non si perdeva occasione per organizzare e creare momenti di divertimento. Lo svago per gli adulti era in genere rappresentato dalle feste durante le quali si poteva assistere al Torneo, scontro fra due cavalieri, o alle “Battagliole”, scontri con armi finte fra gruppi di paesani. Ma tra i giochi per adulti più diffusi nelle città italiane, tra XIII e XIV secolo, c’erano i giochi da tavolo che verranno in questo articolo trattati e descritti nelle loro regole principali.
Nelle città italiane veniva praticata un’ampia varietà di giochi, spesso d’azzardo, con i dadi o con altri oggetti adoperati come pedine; a tali giochi si aggiunsero, solo in seguito, i giochi con le carte. Questi giochi appartenevano tutti alla categoria della pura fortuna, ovvero alla categoria dei giochi proibiti dagli statuti comunali. Il gioco d’azzardo era praticato dappertutto: sotto le logge e i portici, ai crocevia delle strade e soprattutto nelle piazze dove si svolgevano i mercati.
Questi luoghi erano veri e propri punti nevralgici dell’attività ludica poiché nelle case private, nelle botteghe e nei luoghi semichiusi, era proibito giocare. I severi controlli da parte delle istituzioni civili e la riprovazione degli ecclesiastici, specie a partire dal 1300, traevano origine da vari fattori: giocare provocava spesso grosse perdite da parte anche dei meno abbienti e numerosi sono i casi documentati di completa rovina con perdita di denaro e beni. La perdita dava origine anche a sfoghi rabbiosi e liti fra i giocatori che inveivano e bestemmiavano. All’epoca era diffusa l’idea che la bestemmia non solo provocasse l’ira di Dio su chi la pronunciava, ma ricadeva anche sulla comunità a cui l’individuo apparteneva.
A tale proposito le autorità religiose pubblicarono precise indicazioni sui peccati originati dal gioco d’azzardo: avarizia, furto, usura, menzogna, blasfemia, corruzione del prossimo, scandalo, disprezzo dei divieti della Chiesa e ozio. L’opera di questi predicatori portò, nel XV secolo, ai “roghi delle vanità” dove insieme a belletti, nastrini e libri proibiti, vennero arsi nelle piazze anche scacchiere, tavolieri e dadi. L’artefice principale, il fautore della lotta contro il gioco d’azzardo, fu Bernardino da Siena: egli considerava il gioco d’azzardo come un furto continuo ai danni del prossimo, un’appropriazione indebita di denaro, guadagnato sfruttando il tempo di Dio e senza lavorare. Tutto ciò che riguardava il gioco di fortuna venne così considerato nemico delle attività cristiane. Nonostante i divieti la pratica del gioco d’azzardo era diffusissima; non esisteva strato sociale che non esercitasse tale attività ludica: garzoni, operai, commercianti, principi, re, monaci, frati, donne e soldati. Di fronte a tale diffusione anche le autorità dell’epoca dovettero “arrendersi” effettuando blandi controlli e mantenendo una certa rigidità solo nel caso in cui il gioco venisse praticato in luoghi severamente proibiti.
Una soluzione che si sviluppò dal 1300 circa fu quella di regolare e delimitare il gioco, specie quello d’azzardo, per quanto riguarda i luoghi, i tempi, le forme e i modi; si hanno esempi di rubriche comunali dove viene stabilito quando e dove possano essere tenute case da gioco temporanee. Si tratta di veri e propri “calendari” che regolavano l’attività ludica per l’intero arco dell’anno.
Il gioco d’azzardo assunse nel Medioevo l’aspetto di una vera e propria “struttura” intorno alla quale ruotavano giocatori di professione, definiti barattieri, araldi, marocchi o, più in generale, ribaldi. Tale professione “infamante” caratterizza, in un primo tempo, un individuo completamente assorbito dal gioco, al margine della società ma con il passare dei secoli i barattieri si organizzarono in vere e proprie bische, dapprima clandestine, e poi in accordo con le autorità cittadine. Ben presto la Baratteria organizzata diventa un punto di riferimento per gli altri ribaldi e per i giocatori occasionali. I barattieri erano riuniti in societas con a capo un potestas; questa figura aveva compiti precisi, stabiliti da un contratto stipulato con il Comune, tanto che il potestà aveva vera giurisdizione nella Baratteria, con addirittura il diritto di portare armi, sedare le risse, denunciare i bestemmiatori, impedire il gioco al di fuori della Baratteria stessa, essere giudici per liti fra vincitori e perdenti.
La Baratteria era caratterizzata da un’organizzazione di tipo corporativo con tanto di “gonfalone” esibito davanti al barattiere come vessillo: il gonfalone raffigurava i giocatori su fondo bianco. La Baratteria divenne quindi un’attività importante per i Comuni dato che il dazio riscosso assumeva anche valori notevoli; nel 1287, ad Amalfi, venne pagata una somma di 45 once per giocare a Zara. Di fatto nasceva il concetto di Casinò. Proprio per questo motivo il gioco d’azzardo, delimitato in tali luoghi, venne nella seconda metà del 1300 addirittura favorito dai Comuni, principalmente in due modi:
- vietando sempre di più il gioco al di fuori delle baratterie;
- legalizzando l’attività del barattiere.
I barattieri si muovevano lungo una linea di confine sottile che separava la legalità e la tolleranza dalla illegalità; spesso essi venivano segnalati e puniti (ma non troppo) dalle istituzioni con condanne spesso simboliche tese solo ad identificare socialmente i soggetti dediti a tale attività. Una sorta di primo tentativo di gioco regolamentato a livello penalistico. Tale regolamentazione iniziò lentamente nel secolo XII e si rivelò con chiarezza nel corso del XV secolo con l’emanazione di leggi che, accanto ai giochi illeciti, contemplavano anche giochi leciti. Era evidente per tutti che oltre al gioco vietato si sentiva la necessità anche di un gioco permesso, necessario per la società e la stessa economia del tempo.
Le taverne
Fra i luoghi in cui era lecito giocare ricordiamo le taverne e le osterie dove, ottenuta la cosiddetta gabella, si poteva esercitare il diritto di far giocare gli avventori, con la garanzia, da parte degli osti, di controllare le liti e le frodi. Nata come locale coperto, destinato a scambi di merci artigianali e agricole, nel corso dei secoli la taverna assunse sempre di più le caratteristiche di luogo di ristoro unito allo svago. Nelle maggiori città dell’epoca se ne trovavano di diversi tipi ma esistevano anche le taverne mobili costituite da un carro, botti di vino e qualche sgabello, con il quale l’oste si spostava da una fiera all’altra. Le insegne, dipinte all’entrata delle taverne, generalmente erano ispirate ad animali: il Falco d’oro, il Pavone etc.; in estate le taverne potevano anche allargarsi verso l’esterno con tavoli e sedie. Pur essendo rare le immagini che ci sono pervenute su tali luoghi, quelle note dimostrano chiaramente che lo svago principale nelle taverne era rappresentato dal gioco; grazie al vino, che scorreva a fiumi, le parole volavano “libere” e le liti legate al gioco dei dadi erano frequenti. La taverna era un piccolo microcosmo; un porto di mare per gente di ogni tipo.
Il gioco dei dadi
Il gioco dei dadi, nelle sue varie forme, era fra i giochi più praticati nel Medioevo. I dadi sono oggetti ludici di origine molto antica; in epoca romana il sostantivo alea indicava il dado con sei facce, in seguito la stessa parola assunse il significato di “gioco dei dadi” e successivamente definì qualsiasi gioco basato sulla fortuna. Successivamente per indicare il dado fu coniato il termine di taxillus: il nome deriva dalla parola talus, cioè l’ossetto del piede posteriore degli agnelli chiamato anche astragalo. Gli ossetti ricavati dagli agnelli venivano utilizzati durante le festività pasquali per giocare; presso i popoli indo-germanici erano invece adoperati per interrogare il destino e riceverne il responso. I dadi potevano essere in legno o in metallo, ma quelli più ricercati erano quelli in osso pesante poiché rotolavano meglio.
Il gioco dei dadi, praticato da tutti i ceti sociali, non era reputato adatto ad un sovrano; le miniature del libro di Alfonso X, raffigurano solo personaggi di basso livello sociale o cavalieri denudati che giocano con i dadi.
Di seguito, oltre alle regole generali, verranno descritti solo alcuni dei giochi con i dadi tra i quali l’Azar che è di sicuro il più famoso.
Regole generali
- I dadi devono essere tre. Si tratta di figure cubiche composte da sei facce della stessa misura;
- In ciascuna delle sei facce devono essere posti i punti: 6, 5, 4, 3, 2, 1, in modo che si abbiano per ciascun dado 21 punti e 63 punti nei tre dadi. La disposizione dei punti sarà quella di contrapporli in modo tale che la loro somma sulle facce contrapposte sia sempre uguale a 7. Così la faccia del 6 sarà contrapposta a quella dell’1, la 5 al 2, la 4 al 3;
- I dadi possono essere in legno, pietra, osso o di qualsiasi metallo. I migliori sono quelli in osso perché cadono in maniera più regolare e uniforme;
- Ciascun gioco prevede “la battaglia”: si tirano i tre dadi e chi ottiene il numero più alto sommando il punteggio della faccia visibile e orizzontale di ciascun dado, gioca per primo;
- All’inizio della partita i giocatori stabiliscono la posta in gioco, di solito è una certa somma di denaro.
Il gioco dell’Azar
Questo gioco era conosciuto in Italia con il nome di “Zara”. Nel Medioevo questo gioco era il più diffuso fra i giochi di fortuna. Si dice che fu inventato verso l’anno 1200, nei pressi di un castello arabo, Azar, da cui prese il nome. Le regole di gioco che seguono sono tratte dal Libro de los juegos di Alfonso X:
- Chi tira i dadi per primo vince se ottiene 15, 16, 17 o 18 oppure i numeri sulle facce opposte cioè 6, 5, 4, 3. Tutti questi numeri sono chiamati azar;
- Se il primo giocatore non ottiene un azar, dà all’altro giocatore uno dei punti tirati, da 7 in su e da 14 in giù (7-14);
- Il secondo giocatore tira i dadi; se fa azar vince, altrimenti il punto tirato (7-14) è assegnato al primo giocatore;
- Se il primo giocatore tira in seguito un azar, il punto viene definito reazar e il primo giocatore perde;
- Se, invece, il tiro non sarà un reazar, il primo giocatore dovrà tirare tante volte finché non uscirà o il proprio numero (dato dal secondo giocatore se anch’egli non ha fatto azar) e vincerà oppure tira il numero dato dall’altro (vedi punto 2 sopra ) e perde;
- Il secondo giocatore dovrà o tirare il proprio numero assegnato (7-14) e vince, o tira quello avversario e perde.
Nota Bene: può capitare che entrambi i giocatori si vedano assegnati lo stesso numero (7-14); quando uno dei giocatori tira tale numero, entrambi perdono/vincono, cioè la partita è patta.
È possibile però in questo caso che il primo giocatore tiri un reazar, quindi perde.
Es. 1: primo giocatore – tira un 3 + 2 + 1= 6, azar! E vince.
Es. 2: primo giocatore – tira 2 + 4 +1= 7, non vince, e il numero viene “dato” all’avversario. secondo giocatore – tira 5 + 5 + 1 = 11, non vince. Avrebbe vinto se tirava uno dei numeri azar (vedi punto1); il punto ottenuto, 11, viene dato al primo giocatore. Ora il primo giocatore può vincere solo se tira ancora il “suo” numero, cioè 11; perde se tira il numero “avversario”, cioè 7, oppure se tira un azar che viene definito reazar. Allo stesso modo il secondo giocatore può vincere solo se tira ancora il “suo” numero, cioè 7; perde se tira il numero “avversario”, cioè 11. Non perde se tira reazar.
Il gioco della Zara
Il gioco della Zara fu sicuramente il più diffuso fra i giochi d’azzardo di questo periodo in Italia; lo stesso Dante deve averlo sperimentato, dato che ne parla nel Canto VI del Purgatorio: “quando si parte il gioco della zara, colui che perde si riman dolente, repetendo più volte e tristo impara…”. Il gioco della Zara, in Italia, aveva regole diverse dalla versione spagnola; sembra, infatti che a Zara si giocasse tirando semplicemente tre dadi, dichiarando, prima del tiro, quale sarebbe stato il risultato ottenuto. Il vincitore sarebbe stato colui che tirava per primo il risultato “chiamato”.
- I giocatori si alternano, tirando i tre dadi; inizia chi vince la battaglia;
- Chi tira i dadi e ottiene 3, 4, 17 e 18 ha ottenuto zero (probabile origine del nome “zara”, cioè la combinazione sfavorevole). Tutti questi numeri vengono chiamati “azar” e non valgono;
- Chi tira i dadi, deve, prima del lancio, dichiarare un punto da 5 a 16. Se il numero esce vince;
- Con tre dadi, i numeri che escono con maggiore probabilità sono il 10 e 11. Si suggerisce di limitare il numero di volte che un giocatore può dichiarare tali punti.
Il gioco della Riffa
- Il primo giocatore deve tirare i dadi tante volte finché non otterrà lo stesso punto in due dei tre dadi; poi deve tirare l’altro dado;
- Si sommano quindi i punti dei tre dadi così tirati;
- Se l’altro giocatore, tirando i dadi come ai punti 1 e 2 sopra, otterrà più punti, vincerà. Se non otterrà altrettanti sarà patta. Se ne otterrà meno avrà perso.
Es. 1: primo giocatore – tira 2 + 2 + 1= 5 secondo giocatore – tira 5 + 5 + 1= 11, e vince. Con un tiro 1 + 1 + 3 = 5, sarebbe patta.
A cura di Claudio Zanotti