ORIGINI DEL NOME
Il toponimo (dal greco tòpos, “luogo”, e ònoma, “nome”) Isola, indica un terreno emergente tra le acque, sta a significare questa situazione confermata anche dall’attributo cenense, cioè paludosa, con cui la troviamo designata nei più antichi documenti.
La prima menzione, in ordine assoluto del paese è contenuta in un placito (una decisione) del 4 luglio 972, alla presenza del Patriarca di Aquileia, si discute sulla autenticità di un testamento con cui tale Pradiverto lasciava alla chiesa di San Faustino e Giovita i suoi beni, parte di essi erano in Insola Azanensis.
A distanza di una quarantina d’anni il nome del paese ricompare, leggermente modificato, in un documento datato 20 luglio 1011 relativo ad una permuta di terreni avvenuta fra Gisalberto, abate di San Zeno, e un prete Petrus, abitante in loco Pladeno. Una nota sul tergo della pergamena informa che i terreni ricevuti dal monastero di San Zeno furono poi cambiati con il marchese Bonifacio e la moglie Richilda. L’atto è stato redatto in castro Insola Cenense fatto che si spiega, con ogni probabilità se si pensa all’importanza che il paese andava assumendo per la sua collocazione lungo una via di primaria importanza. E’ importante notare, tornando alla pergamena del 1011, come Isola vi compare come castrum, ossia villaggio fortificato. Il nome viene cambiato il secolo seguente in Isola dei Conti, si tratta dei conti Da Palazzo. Nel XIV secolo il nome diventa Insula Scalarum dopo essere passata sotto il controllo della omonima famiglia veronese, Della Scala. Nel XV secolo il nome fu nuovamente cambiato in Isola di San Marco, dal momento in cui era passata sotto il dominio veneziano, tuttavia l’uso corrente di Isola Della Scala rimase ed è giunto fino ad oggi.
LA TORRE SCALIGERA SUL TARTARO
Eretta a guardia a quello che era un tempo uno dei principali passaggi obbligati sul Tartaro, lungo la via che collegava l’Insula Scalarum con il territorio mantovano. Attualmente è “ridotta” solo una minima idea di quella che doveva essere la sua originaria funzione di controllo e la sua efficienza di arnese bellico.
Eppure nonostante le minute dimensioni la trecentesca struttura con rivellino a camera affiancato ebbe a rivestire un ruolo non marginale nell’ambito di quella “articolata macchina fortificatoria” messa a punto dalla signoria Scaligera nel corso del XIX secolo.
Un dispositivo di castelli cortine e torri, che ebbe a conservare parte della sua potenzialità difensiva anche nel primo periodo di dominio della Serenissima.
Non è del tutto a caso che nel 1478 Giorgio Sommariva provveditore alle fortezze, lamentasse a demolizione di alcuni tratti del Serraglio veronese (16 Km di muraglia con torresini e fossato acqueo ricavato dal Tione) e l’inadeguatezza delle manutenzioni riservate a rocche e rocchette varie (così erano chiamate le fortificazioni minori, come le torri isolate) che ne completavano il disegno fortificatorio dell’epoca.
Come denota lo stesso Sommariva, un apparato di difese “che faceva fortissima Verona… verso Mantova, come comenzando al lago de sopra Peschiera e discorendo per el Menzo fino a Valezo, et deinde drio al muro del seraglio fin de soto da Vilafrancha, et oltra drio le paludj del Tegiun e del Tartaro fin a Pontemolin”, aggiungendo più oltre come proprio quelle paludi fossero “gran parte della fortezza de dicto serraglio”.
È proprio all’interno di tal quadro, cronologicamente riferibile attorno alla metà del Trecento, dopo le infauste guerre della Lega dell’Equilibrio, il trattato di pace con Venezia (1339) e la drastica riduzione del dominio scaligero: da cui poi l’urgenza di razionalizzazione del sistema difensivo da qui poi l’urgenza di instaurare la Torre Scaligera. Torre che non è un episodio singolare, ma che trovava un tempo riscontro in una serie di altri manufatti analoghi, posti pur essi a guardia di strade o altri passi obbligati su fiumi.
Basta uno sguardo alla cartografia quattrocentesca per cogliere l’importanza strategica di tali strutture e il loro impiego relativamente diffuso.
Nel solo tracciato che collegava Isola ad Ostiglia se ne collegavano cinque:
- la torre isolana;
- la torre di Nogara sul tartaro;
- la fortezza di Ponte Molino;
- la Torre di Mezzo;
- la Torre Rotta.
Analogo fortilizio si trovava a Nogarole Rocca: la “Torre della rocca storta” collocata sul Tione.
Strutture oggigiorno pressoché scomparse ad eccezione di quella Isolana giunta quasi integra sino ai nostri tempi: una testimonianza preziosa e per alcuni aspetti eccezionale.
Edificate in genere sull’argine di corsi d’acqua erano dotate di più livelli interni, fino a cinque o sei, a cui si poteva accedere all’alto solo tramite un apparato di scale retrattili, talora protetto da rivellinni a camera affiancati: così infatti doveva essere strutturata la torre di Nogara “La Rocca” citata anche nelle provvisiones fortiliciarum del 1408 e ritratta in un bel disegno del 1736 da Saverio Avesani, dove è raffigurata pendente, con il rivellino disposto a guardia dell’attiguo ponte ligneo, allora “fisso” ma all’epoca scaligera probabilmente mobile.
Più complessa e originale era la struttura della Torre Scaligera di Isola, il modello di riferimento rimane lo stesso, ma l’impianto risulta più articolato proprio per la presenza di sul rivellino non di una ma di ben due “levatoie”; ne consegue che gli Scaligeri, deviando in parte il Tartaro, dovettero creare un secondo corso d’acqua (oggi interrato) che andava a lambire la torre anche sul lato opposto al fiume, protetto così da un intero fossato acqueo che cingeva l’intera struttura, con il rivellino posizionato in modo da intercettare direttamente il tracciato viario sbarrandone il passo.
Il fortilizio doveva garantire un piccolo presidio di guardia e una facile difesa del passo.
Analogamente all’impianto anche le tecniche costruttive e murarie denunciano una matrice scaligera: risalta in primis l’uso accorto del laterizio, materiale pregiato per l’epoca e quindi riservato agli elementi di dettaglio (archi, aggetti, merlature) nonché alle ossature strutturali: come le catene angolari conformate a dente di sega e legate tra loro da ricorsi costituiti da doppio filare di mattoni, ma perfezionata e utilizzata diffusamente dalle maestranze scaligere nella maggior parte delle loro opere fortificatorie.
Il resto dell’apparecchiatura muraria risulta realizzata per ragioni di speditezza esecutiva e ragioni di economicità.
Per il nucleo di quest’ultimo così come per i paramenti, si faceva ricorso ai materiali non lavorati disponibili in loco: in questo caso ai ciottoli del fiume.
Da notare tuttavia come anche i paramenti e nella finitura esterna di tali parti (qui configurate a trapezi sovrapposti) la lavorazione fosse comunque improntata a criteri di resistenza e durabilità nel tempo.
Si può notare nelle zone ove il degrado ha portato a vista il paramento, la disposizione ad opus spicatum dei ciottoli accuratamente alternati con filari di tegole fratte.
Il tutto veniva poi intonacato con la tecnica a “raso sasso” per garantirne una maggior protezione (la cui efficacia è confermata tutt’oggi dal discreto stato di conservazione delle zone a favore di esposizione).
L’attacco rivellino alla torre è risolto solo appoggiandole una all’altra senza ammorsature ed evitando quindi che gli assestamenti fondamentali della torre potessero causare lesioni nelle parti deboli del rivellino, il quale dotato nella zona superiore di un camminamento di ronda protetto da merlatura ghibellina, mostra su entrambi fronti principali, come si è detto, le sedi d’allloggiamento dei bulzoni per i due ponti levatoi.
Oltre che dal camminamento superiore la difesa era garantita a terra da quattro feritoie: queste ultime realizzate a tholos, secondo una tecnica costruttiva anch’essa peculiare delle maestranze scaligere.
Alla torre, alta una ventina di metri e suddivisa all’interno in cinque livelli, il secondo e l’ultimo coperti da volte a botte, si accedeva dalle aperture centinate, con ghiera in cotto, poste all’ultimo livello del fronte nord-ovest, protette quindi dal rivellino.
Quattro mensole in pietra sagomate a “gancio” nella zona sommitale alla torre, servivano per reggere un sistema di scale di legno retrattili.
Quanto agli altri accessi alla oggi praticabili, uno sono al pian terreno sul fronte sud-est l’altro nel camminamento del rivellino.
Si tratta di aperture chiaramente in “rottura” realizzate in epoca in cui il manufatto aveva già perso la sua funzione difensiva.
I vani dei primi quattro livelli erano dotati esclusivamente di feritoie (a tholos) e solo l’ultimo aveva finestre.
La presenza a questo stesse livello di un forno e di un acquario (contemporanei alla fase di costruzione) attestano come la torre disponesse dei servizi indispensabili a garantire la sopravvivenza di un piccolo presidio di soldati a guardia del passo, anche in caso di assedio.
Dalle indagini archeometriche effettuate nella campagna di restauri del 1986-1987 s’é appurato come la torre giunta a noi priva di copertura, fosse in origine dotata di un tetto a falde, sorretto al centro da un puntone ligneo (la cui sede era l’estradosso della volta) e ai lati del coronamento merlato ormai oggi praticamente cancellato dal degrado.
Il sistema di smaltimento delle acque piovane, con caditoie laterali in lastre di pietra per eliminare eventuali infiltrazioni d’acqua dagli spazi intramerlari, rivela il grado di ricercatezza costruttiva messo a punto dalle maestranze scaligere.
Tornando alle vicende storiche del manufatto, se per il periodo scaligero le fonti scritte restano pressoché mute, interessanti si rivelano alcuni documenti quattro-cinquecenteschi, dai quali si evince, ad esempio, che nel 1472, stando ad una nota del provveditore Giorgio Sommariva, nella “rocheta de Ixola” sono stipendiati due castellani (tre in quella di Nogara), che nel 1457 è castellano Giacomo Fiori de zura, nel 1498 vive all’interno della torre il provvisionato Stefano de Scutari e nel 1501 tale Giovanni da Bologna. Da una missiva del 4 febbraio 1538, inviata dal podestà di Verona a Vincenzo Quirini, de Collegio viqnitis officialibus rationum veterum, s’apprende inoltre che la torre de Isola “inhabitabile” (le strutture interne erano state bruciate dai francesi nel 1510), era stata concessa nel 1517 dalla Serenissima al comune, il quale non ne “cava utilità alcuna salvo che la usano et gli è di comodo per far transito su un certo fiume”.
Di qualche rilievo sono altresì le varie testimonianze iconografiche del manufatto riportate nella cartografia storica e nelle mappe dedicate all’idrografia della zona, già a partire dalla quattrocentesca carta del Bertoldi, ove l’imago enfatizzata della torre, per quanto ancora stereotipata, denuncia l’importanza del fortilizio, per continuare col disegno del redatto nel 1561 da Giovanni Battista De Remi e Cristoforo Sorte i quali, nella restituzione dell’assetto planimetrico, mostrano come all’epoca fosse già stato realizzato un ponte fisso sul Tartaro e, al contempo, interrato il fossato acqueo creato due secoli sul lato opposto.
Più ricche di dettaglio sono alcune carte sei-settecentesche: quella di Antonio Orefici, datata 1617, ove compare una piccola abitazione addossata sul fianco orientale della torre (di cui si leggono ancor oggi le tracce dell’addossamento), o quella di Antonio Gornizai del 1711, ove il cartografo suggestionato dalla struttura “tenta” una restituzione grafica del paramento in laterizio.
Quella più interessante risulta essere di Adriano Cristofali una veduta volo d’uccello che mostra la torre con la copertura a falde e il rivellino con il camminamento interno.
Eletta icona simbolica della comunità, la torre di Isola venne restaurata la prima volta nel 1839 ad opera dell’Ing. Giuseppe Mendini. L’attuale struttura muraria in cotto è stata in gran parte restaurata nel 1839, ed una lapide murata sopra il lato ovest del rivellino ci ricorda quell’intervento (MDCCCXXXIX hoc collabefacturo renovatum comunitatis aere), ed una seconda volta nel 1986-1987.
FONTI:
- Isola della Scala – Territorio e società rurale nella media pianura veronese, a cura di Bruno Chiappa
- foto estratte in parte dal libro e in parte dal sito internet: http://www.csrnet.it/isola/torre/torre.htm
a cura di Luca Sartori